Partire dall’Adriatico per cambiare la mappa delle Regioni italiane
03 Maggio 2013
Nell’articolo 132 della Costituzione, i Padri repubblicani trovarono un delicato punto di equilibrio fra la salvaguardia dei confini regionali e l’eventualità che questi potessero mutare in modo dinamico anche se non repentino. Obiettivo era stabilire una disciplina restrittiva sulle ipotesi di variazione territoriale per garantire che lo Stato centrale fosse preservato dalle rivendicazioni di natura campanilistica, ma, con la saggezza che li contraddistingueva, i Costituenti lasciarono una porta socchiusa a future riforme della seconda parte della nostra Carta.
La ripartizione fissata dall’articolo 131 andava in ogni caso difesa e, postulando la «fusione» o la «creazione» di nuove Regioni, i Costituenti misero subito in chiaro che qualsiasi modifica dei confini avrebbe potuto realizzarsi solo attraverso una legge costituzionale. Era una forma di “aggravio” normativo, come ritengono alcuni esperti, determinata certo dalla volontà di evitare le spinte alla frammentazione ma anche frutto dell’atteggiamento agnostico che i Partiti italiani dimostrarono nei confronti dell’istituto regionale fino agli anni Settanta e oltre. L’idea di poter accorpare Regioni già esistenti fu inserita nella Costituzione grazie all’impegno della Seconda Sottocommissione sull’organizzazione costituzionale dello Stato, che decise dunque di coinvolgere tutti i livelli dell’ordinamento repubblicano nelle future proposte di revisione: popolazioni, Consigli comunali, Consigli Regionali, lo Stato.
Rileggiamo l’articolo 132 nella sua versione originaria: «Si può, con legge costituzionale, sentiti i Consigli regionali, disporre la fusione di Regioni esistenti o la creazione di nuove Regioni con un minimo di un milione di abitanti, quando ne facciano richiesta tanti Consigli comunali che rappresentino almeno un terzo delle popolazioni interessate, e la proposta sia approvata con referendum dalla maggioranza delle popolazioni stesse». Con la modifica operata dalla Legge costituzionale n. 3 del 2001, al primo comma dell’articolo 132 se ne aggiunge un secondo: «Si può, con referendum e con legge della Repubblica, sentiti i Consigli regionali, consentire che Province e Comuni, che ne facciano richiesta, siano staccati da una Regione ed aggregati ad un’altra».
Sia nel testo originario che in quello attuale è evidente l’intenzione del Legislatore di subordinare ogni progetto di riorganizzazione del territorio italiano al banco di prova referendario, coinvolgendo direttamente i cittadini e le comunità locali nel processo decisionale. In realtà nel caso della fusione di Regioni esistenti la Costituzione prevede una serie di passaggi intermedi che anticipano e seguono il voto popolare (la proposta fatta dai Consigli comunali piuttosto che il parere non vincolante dei Consigli regionali). L’approvazione della legge costituzionale consentirebbe di modificare l’articolo 131 e la mappa regionale come la conosciamo oggi.
Un elemento di grande importanza utilizzato dai Costituenti per contenere le spinte centrifughe è la norma per cui le nuove Regioni devono avere una popolazione di almeno un milione di abitanti. Ebbene, nel caso della cosiddetta «Marca Adriatica» – il progetto di riaggregare in una macroentità i territori che attualmente appartengono a Marche, Abruzzo e Molise, elaborato dalla Fondazione Agnelli nel 1993 – il requisito minimo degli abitanti sarebbe facilmente raggiungibile: la Regione “medio Adriatica” ne avrebbe più di tre milioni.
Come pure vanno ricordate e valorizzate quelle esperienze nate a livello locale negli ultimi anni che spingono verso una riunificazione territoriale dell’Abruzzo con il Molise, oppure, a livello provinciale, verso la fusione delle province di Teramo e di Ascoli. In quest’ultimo caso Abruzzo e Marche hanno prodotto dei protocolli di intesa per la legislazione e le gestione delle aree di confine. Si pensi ai Comuni della Val Vibrata, tra i più industrializzati della provincia di Teramo, che a loro volta nel 2000 hanno costituito una unione denominata «Città Territorio Val Vibrata».
Certamente l’accorpamento di Marche, Abruzzo e Molise può apparire un compito arduo, anche perché non sono state molte le leggi costituzionali approvate dal 1948 ad oggi. Ma la fusione delle Regioni è prevista dalla Costituzione. Anche se non è mai stata applicata essa continua a vivere ripiegata tra le pagine della nostra Carta, complicata dalle modalità attuative dell’articolo 132. Se guardiamo all’evoluzione in senso federale del nostro sistema costituzionale, alle maggiori competenze e ai diversi gradi di autonomia acquisti dalle Regioni italiane dopo il 2001, si può affermare che nel caso della Regione medio Adriatica esistono quei presupposti, naturali, culturali, economici, in grado di rispettare in senso evolutivo l’impianto teorico-normativo originario della nostra Carta.
Nel caso poi l’attuale Governo guidato dal Presidente del Consiglio Enrico Letta dovesse porre mano alla riforma del bicameralismo, sostituendo la Camera Alta con un Senato delle Regioni, questa rivoluzione copernicana avrebbe senza dubbio l’effetto di snellire i processi di revisione territoriale com’è avvenuto in Svizzera o in Germania.
La fusione tra le Regioni più piccole rappresenta una matura evoluzione dello Stato liberale. Essa renderebbe le nuove Regioni un driver della programmazione economica nazionale invece che costringerle a inseguire anno dopo anno l’incubo dei “costi standard”, menomate dal loro nanismo. È a questa dimensione di efficientamento amministrativo e burocratico, di autosufficienza economica e di sviluppo infrastrutturale che occorre guardare quando si pensa a una ricomposizione razionale della mappa delle Regioni italiane. Senza sottovalutare quella “vitalità”, data da usi e costumi, dialetti, caratteristiche fisiche, sociali e culturali che caratterizzano la tradizionale ripartizione geografica dell’Italia. Anche questi aspetti andrebbero analizzati e ripensati in modo più moderno, aggiornando le scienze storiche e sociali incaricate di approfondire i cambiamenti della nostra epoca.