Pasolini, Guareschi e la rabbia degli eroi antimoderni
28 Ottobre 2007
Al Festival di Roma proiezione de “La rabbia”; dibattito con Massimo D’Alema, Lamberto Dini, Giuliano Ferrara e Tatti Sanguineti
Per la sezione Extra del Festival Internazionale del Cinema di Roma e grazie al restauro della Cineteca di Bologna e al Gruppo Editoriale Minerva Raro Video si è potuto assistere alla versione restaurata de “La rabbia”, documentario bipartito per la regia da una parte di Pier Paolo Pasolini e dall’altra di Giovanni Guareschi.
Al centro del lungometraggio una ricerca: la risposta al perché le nostre vite siano segnate da un malcontento diffuso, dalla paura, dall’angoscia. Il documentario, dalla storia travagliata e romanzesca, nacque dalla volontà del produttore Ferranti che credeva nel successo di botteghino per un film che doveva abbracciare le due metà della società italiana.
La produzione di tutta risposta fu un clamoroso insuccesso. Il film dovette essere ritirato immediatamente dalle sale e P.P.P. fu accusato dai suoi di essere caduto nel tranello, poiché essendo la sua parte di film la prima ad essere proiettata, prestava il fianco all’imbeccata d’infilata del Guareschi.
Le cronache raccontano come nessuno dei due artisti fosse a conoscenza di che cosa avesse montato l’altro, il clima di rissa fu artatamente prodotto per cercare il successo commerciale, ma il film fu girato quanto meno in una atmosfera da armistizio.
La rabbia diventa nella storia del cinema italiano una occasione unica per il confronto di due diversi modi di vedere la vita, di due diversi mondi, due conservatorismi a loro modo, la lotta di classe che deve portare l’uomo alla vera libertà, il timor di Dio come ultimo baluardo per un individuo travolto da forze più grandi. Entrambi P.P.P. e Guareschi affacciati in quei primi anni ’60 su una modernità di cui diffidano.
Per Pier Paolo Pasolini il film La rabbia è “un saggio polemico e ideologico sugli avvenimenti degli ultimi dieci anni. I documenti sono presi da cinegiornali e da cortometraggi e montati in modo da seguire una linea cronologica ideale, il cui significato è un atto di indignazione contro l’irrealtà del mondo borghese e la sua conseguente irresponsabilità storica. Per documentare la presenza di un mondo che, al contrario del mondo borghese, possiede profondamente la realtà, ossia un vero amore per la tradizione che solo la rivoluzione può dare”.
Per Guareschi il film è uno sberleffo al comunismo “trinarciuto”, ma anche alla modernità. Essa resta infatti un abisso che condanna alla perdita di valori, alla disgregazione della famiglia, al nihilismo cui solo la fede può porre rimedio. L’ironia che contraddistingue l’estetica di Guareschi nella selezione delle immagini, nasce dalle vignette del Borghese e si pasce di una certa compiaciuta rozzezza come nella scena dell’inno americano con la danza dei vatussi, per concludersi, la sua parte, con un rigurgito di orgoglio umanista, la frase, “la forza della speranza è più forte della paura” che getta una distanza incolmabile dal sofisticato pessimismo del poeta del comunismo borghese.
In questa chiave anti-modernista, rimarca nel dibattito Massimo D’Alema, il conflitto ideologico tra P.P.P. e Guareschi, diventa solidarietà, il nemico è la modernità che rende passivi e condanna alla morte la bellezza nella icona di Marylin. Naturalmente la modernità è il capitalismo di massa che affermandosi distrugge un mondo di valori. E capitalismo vuol dire America.
Dopo la ricostruzione filologica di Tatti Sanguineti, il dibattito entra nel vivo allorché Giuliano Ferrara chiede ai presenti quale delle due visioni abbia, secondo loro, maggiormente segnato il mondo che viviamo.
Per Lamberto Dini la visione poetica di Pasolini, pur pregevole, era viziata da quel pessimismo che probabilmente nasceva dalla difficile coesistenza con la sua diversità, diversità che vedeva disprezzata dalla pancia di quell’Italia che aveva la voce di Guareschi, il tutto provocando le accuse di qualunquismo, razzismo, anticomunismo da anni trenta cui Guareschi risponderà “Egregio Pasolini, io, borghese di destra, vedendo un negro scannare un bianco, dico “Povero bianco”; Lei dice, invece, “Povero negro”. E per questa mia solidarietà di bianco con la razza bianca, Lei mi accusa di razzismo. Questo perché Lei è un borghese di sinistra e, come tale, conformista.”.
Arrivati al dunque, con il capitalismo nelle veci di capro espiatorio a mettere come al solito tutti d’accordo, irrompe la provocazione di Ferrara: P.P.P. e Guareschi figlio il primo e figliastro il secondo del Concilio Vaticano II, senza il quale P.P.P. non sarebbe potuto esistere e Guareschi avrebbe raccolto senz’altro maggiore considerazione.
Guareschi sedizioso, P.P.P. uomo di potere, con la sacralizzazione postuma, la sua combriccola ideologica, testimoni ne siano le voci poste ad interpretazione delle liriche di accompagnamento alle immagini del film: Giorgio Bassani, voce in poesia, Renato Guttuso, voce in prosa.
Prima di chiudere il sipario, su questa interpretazione, Giuliano Ferrara chiede alla platea un voto di acquiescenza: qualche SI, molti NO.
“Vabbé non siamo mica un Soviet. Ci sono state le primarie. E domani nasce il Partito Democratico.”