Passano per il mercato i limiti dell’alleanza tra cattolicesimo e liberalismo

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Passano per il mercato i limiti dell’alleanza tra cattolicesimo e liberalismo

Passano per il mercato i limiti dell’alleanza tra cattolicesimo e liberalismo

17 Ottobre 2007

È ben possibile, come sostiene Dino Cofrancesco, che “non pochi liberali,
leggendo sui giornali il discorso tenuto da Papa Ratzinger a Velletri il 23
settembre scorso, abbiano arricciato il naso e aggrottato le ciglia”. Sono tra
quelli, lo confesso; e aggiungo anche che non soltanto non ne sono rimasto
stupito, ma che ne ho pure goduto. Questo, per il fatto che tale discorso
ribadisce posizioni già note, consente di focalizzare la differenza tra la
dottrina economica cattolica e l’economia di mercato, e, a chi vuole intendere,
permette di percepire con chiarezza quelli che possono essere i limiti di una
‘alleanza’ non richiesta ma soltanto proposta e, forse, da una parte, mai presa
in seria considerazione.

Non è la prima volta che mi capita di sostenere che il punto critico del
progetto dei due ultimi Pontefici di ricollocarsi come la forza culturale
centrale dell’Occidente è rappresentato dal loro atteggiamento nei confronti
del mercato e quindi della tradizione liberale. Nel caso del discorso di
Velletri, ovviamente, non si tratta di contestare le motivazioni di un giudizio
negativo, ampiamente scontato, sui singoli operatori del mercato (i cosiddetti
‘capitalisti’) o sui difetti dell’’istituzione mercato’. Le vicende di
quell’istituzione e dei suoi protagonisti sono da secoli oggetto di attenta
osservazione, ed ogni loro intento apologetico sarebbe soltanto fuori luogo se
non anche ridicolo.

Cofrancesco ha ragione: bisogna difendere il mercato non solo dai politici e
dai profeti ma anche da imprenditori e finanzieri. Sul fatto che lo si possa
difendere con gli strumenti concettuali forniti o deducibili da quelli che egli
definisce “liberali doc”, come Kant, Tocqueville, Berlin, ho – come Dino sa da
molti anni senza che ciò turbi la nostra amicizia – molti dubbi. Soprattutto
perché se il liberalismo viene distinto e separato dall’economia di mercato
esso diventa qualcosa di indistinguibile dalla democrazia, o da una socialismo
umanitario.

Ridurre il liberalismo ad una tecnica per il controllo del potere significa
sterilizzare quello che era il suo progetto più ambizioso (anche se
discutibile): l’eliminazione del problema politico tramite mezzi economici.
Formula in cui manifesta una filosofia politica originale ed audace che non
consente di considerarlo come il prodotto secolarizzato del cristianesimo e
che, comunque si voglia o possa valutare il mercato, ha avuto l’innegabile
pregio di favorire una mobilità sociale (l’opportunità di passare da uno stato
di indigenza ad uno di relativo benessere) che, non dimentichiamolo mai,
non ha uguali in altre civiltà, in altre epoche della storia occidentale, e che
in questi decenni si è anche accentuato (sia pure producendo delle conseguenze
inaspettate e non sempre positive). Ai tanti difetti del capitalismo, difetti
che chi difende l’economia di mercato conosce da sempre, si contrappone quindi
quello di aver dato vita ad un’inedita mobilità sociale, senza la quale – essendo
connessa alla creatività individuale e alla velocità con cui il processo di
mercato riesce a cogliere e a trasmettere le novità facendole proprie – il
mercato e le istituzioni cui ha dato vita non potrebbero sopravvivere. E che
tale scomparsa possa essere più equa, rispettosa dell’ambiente e vantaggiosa
per i poveri e gli sfruttati, attende ancora dimostrazione. Anche perché i
tentativi di sostituire il mercato con altri modelli economici, sia pure
ispirati ad alti ideali religiosi ed etici, si sono dimostrati a dir poco
fallimentari.

Ma il problema non è questo, quanto che la critica di Ratzinger
all’istituzione mercato (“mammona”?), di inaspettata crudezza, mette in
evidenza, e bisogna dirlo con analoga crudezza, una sorprendente incomprensione
dei fondamentali del medesimo. Un’incomprensione che si ammanta di richiami
emozionali negativi come quello sulla “logica del profitto” che incrementerebbe
la “sproporzione tra ricchi e poveri” ed il “rovinoso sfruttamento del
pianeta”, e positivi come quelli alla “logica della condivisione e della
solidarietà”, dello sviluppo equo, per il bene comune di tutti”.

È certo che il mondo e la vita non son giusti (ed ancor meno lo erano quando
la Chiesa aveva quel potere di influenza che ora lamenta di non avere), ed è
evidente che – con le parole del Pontefice – se “in fondo si tratta della
decisione tra l’egoismo e l’amore, tra la giustizia e la disonestà, in
definitiva tra Dio e Satana”, l’idea che il mercato (mammona) sia ridotto ad
egoismo, a disonestà e a Satana, non può incontrare consenso tra quei liberali
che a partire dai discorsi di Ratisbona e di Verona hanno coltivato la speranza
che la distinzione e, perché no, la serrata critica da parte della Chiesa a
certi aspetti della cultura economica liberale, ripartisse con serenità sulla
base di elementi di tecnicità.

In altre parole, che quella sintonia manifestatasi a partire dalla critica
alle conseguenze sociali e politiche del relativismo e dello scientismo
(critica che molti liberali hanno da sempre nel proprio Dna), dello
stravolgimento dei diritti naturali nella dimensione degli illimitati diritti
umani che caratterizza un ateismo di massa di stampo godereccio, potesse
estendersi, appunto tramite una reciproca fiducia e una maggiore conoscenza
reciproca, anche al campo dell’istituzione mercato. Anzitutto analizzandone
quei pregi e quei difetti sui quali i liberali che riconoscono il proprio
antecedente teorico in Carl Menger (anche perché già nel 1871 aveva scritto che
il compito della scienza economica era insegnare a distinguere i bisogni
razionali da quelli irrazionali perché il suo scopo era di riprodurre quanto
veniva consumato), conoscevano per lo meno dai tempi di Mandeville, di Smith e
di Hume e della loro impietosa analisi della natura delle passioni che muovono
gli uomini. Passioni che son risultate difficilmente modificabili sia tramite
l’educazione, sia tramite la coercizione. Modalità comunque ed ampiamente
sperimentate.

Nonostante l’ottimismo di quei cattolici liberali che imperterriti
sostenevano si trattasse soltanto di problemi di terminologici, chi aveva
dimestichezza coi testi in cui veniva esposta la dottrina sociale della Chiesa
avvertiva che sul tema dell’economia c’era qualcosa che alla fine avrebbe
marcato una differenza col liberalismo classico. E che questo qualcosa, ed in
specie il ruolo dell%E2