Passato, presente e futuro del disastro afghano (di P. Romani)

Banner Occidentale
Banner Occidentale
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Passato, presente e futuro del disastro afghano (di P. Romani)

23 Agosto 2021

La tragedia afghana e la sua terribile conclusione nascono anche dalla incapacità dell’Occidente, e soprattutto degli USA, di comprendere le società medio-orientali. Immaginare di costruire in Afghanistan, così come prima in Iraq, uno stato liberale, attento ai diritti umani e con istituzioni elette secondo le classiche regole della democrazia rappresentativa di stampo occidentale, è un errore grossolano per motivi di carattere storico e culturale.

Immaginare uno stato unitario con un Parlamento eletto e con un esercito nazionale è un’autentica follia in un Paese fondamentalmente tribale: l’autorità degli elder dei villaggi sarà sempre superiore a quella di qualsiasi funzionario governativo, magari di un’altra etnia o credo religioso. L’Afghanistan infatti è suddiviso in quattro etnie principali, Pashtun, Hazara, Uzbechi e Tagiki, con almeno altrettante lingue e mille dialetti. Entrambe le grandi anime dell’Islam sono rappresentate, quella sciita e quella sunnita, in guerra fra loro in tutto il mondo arabo.

La frammentarietà politica si riconosce anche nella presenza delle figure dei warlords, i signori della guerra, che ognuno per il proprio territorio hanno rappresentato, e a volte rappresentano ancora, gli unici difensori dall’occupazione russa prima e talebana poi. Guerriglieri sì, ma anche abili politici e rappresentanti delle istituzioni governative, alcuni di loro erano ministri nei governi Karzai e Ghani, oggetto di una ottusa campagna di indebolimento da parte degli USA che ha comportato una ridottissima capacità di resistenza all’avanzata talebana: Ismail Khan, signore della guerra di Herat, che ho conosciuto personalmente nella sua casa-fortezza di Herat e che purtroppo pochi comandanti dei contingenti italiani hanno incontrato, anche per la sciagurata regola di turnazione semestrale, ha resistito pochi giorni prima della resa e dell’esilio in Iran pur avendo nella sua regione una capacità di mobilitazione di almeno trentamila uomini. Una leadership naturale che, grazie anche alla pressione occidentale, il governo centrale ha tentato di sostituire per esempio con il governatore Daud Saba, trapiantato da anni con la famiglia in Canada, indicandolo come governatore della provincia, territorio che ha forse visitato solo sulle mappe essendosene stato asserragliato nei suoi uffici per tutta la durata del suo mandato. Si è rivolto invece a tutto l’occidente, richiedendo aiuto per resistere, Ahmad Zia Massoud, figlio del Leone del Panjshir (Ahmad Shah Massoud) anche lui inascoltato dall’occidente quando tentava di mettere in guardia da Osama Bin Laden e proprio da quest’ultimo ucciso due giorni prima dell’11/9.

Un’economia illegale del narcotraffico, che da sola garantisce la sopravvivenza dell’80 per cento delle famiglie afghane, a fronte di ingenti risorse naturali di cui non siamo stati in grado di avviare lo sfruttamento, e una corruzione che affligge tutti gli apparati statali a qualsiasi livello, che forse abbiamo aiutato ad ingrassare con una poco sapiente elargizione di aiuti: questi gli ultimi due aspetti che disegnano un quadro dell’Afghanistan complesso ed intricato.

Dopo aver lavorato alla costruzione delle istituzioni di uno stato democratico, che affondasse le radici nella cultura afghana (un esempio è la Loya Jirga, parlamento sulla base delle tradizionali assemblee di elder) abbiamo scoperto dalla sorprendente conferenza stampa di Biden che non era quello il nostro scopo. L’unico obiettivo della missione in Afghanistan, rispetto alla quale Biden sembra dimenticare anche il ruolo degli altri paesi come l’Italia, era battere Al Qaeda, il grande nemico, almeno in Afghanistan, ma interlocutore della CIA, in chiave anti Assad, in Siria, con la costola Al Nusra. Missione compiuta, dunque, con l’uccisione di Osama Bin Laden, che peraltro era in Pakistan, salvo poi leggere le affermazioni di John Kirby, portavoce del Pentagono: “Sappiamo che Al Qaeda e l’Isis sono ancora presenti in Afghanistan. Il numero non è esorbitantemente alto ma non abbiamo una cifra esatta perché la nostra capacità di raccolta di informazioni in Afghanistan non è più quella di una volta”.

L’analisi delle cause del crollo del sistema afghano all’avanzata talebana sarebbe troppo lunga per essere affrontata in questa sede. Dall’indebolimento delle figure più influenti delle varie regioni, i cosiddetti ‘signori della guerra’, alla sottovalutazione della capacità strategica degli studenti coranici. Mi limito a rifiutare la narrazione di un popolo che avrebbe scelto l’opzione talebana e di responsabilità limitate alla leadership afghana e alle forze armate ufficiali: il governo Ghani è stato “destituito” di fatto dagli accordi di Doha, sottoscritti da Trump direttamente con i leader talebani escludendo il governo legittimo, che hanno determinato solo le modalità di ritiro degli Stati Uniti non certo il futuro della Repubblica Islamica. L’unica alternativa a quel punto di fronte all’offensiva degli studenti coranici per il fantomatico esercito afghano era fra resa o morte.

Ora sta a noi decidere quale ruolo svolgere in questo processo complesso ma tenendo ben presente che non è ammissibile il disimpegno politico. Siamo direttamente interessati dalla questione afghana per tre ordini di motivi: il rischio di recrudescenza del terrorismo internazionale rappresentato da un territorio non ostile ai gruppi fondamentalisti; l’impatto sui flussi migratori; ma soprattutto il dovere morale di non vanificare un impegno militare ed umanitario almeno da parte italiana durato venti anni.

In che modo la politica può portare avanti gli obiettivi della missione Isaf?

  1. Nell’immediato mettendo in salvo tutta quella società civile formata e vicina agli ideali occidentali che oggi sono bersaglio diretto di violenze e atti anche simbolici del ritorno dei talebani: non è solo una questione umanitaria e morale, ma è la difesa di un investimento che abbiamo fatto in quel paese. Quelle donne e quegli uomini sono l’unica speranza di un futuro diverso per l’Afghanistan.
  2. Proteggendo gli italiani che hanno scelto di rimanere in Afghanistan per progetti umanitari e di sviluppo economico. Il dott. Alberto Cairo, un nome su tutti, con la Croce Rossa Internazionale.
  3. Creando le condizioni per poter condizionare il nuovo regime al rispetto dei diritti umani del popolo afghano.
  4. Contrastando la possibile recrudescenza del terrorismo internazionale agevolato da un Paese di certo non ostile ai gruppi fondamentalisti tanto da diventare una potenziale base logistica per nuovi attacchi in Occidente.
  5. Regolando i flussi di profughi diretti verso l’Europa.
  6. Scongiurando il rischio che un’area in cui abbiamo profuso tanto impegno possa diventare esclusiva pertinenza di potenze come la Turchia, la Russia e la Cina.

Il tema dell’equilibrio geopolitico dell’intera area, dove insistono il ruolo ambiguo del Pakistan, l’influenza a ovest dell’Iran, e gli interessi politico-economici di Russia, Turchia e Cina, è dirimente per il futuro dell’Afghanistan e per il riflesso in termini di sicurezza internazionale. In particolare la strategia cinese ricalca in tutto e per tutto quella già vista in Iraq: nessun coinvolgimento militare, nonostante il confine con la delicata regione del Xinjiang, poi a conflitto ultimato immediate relazioni commerciali per lo sfruttamento delle tante risorse naturali del territorio. E l’Afghanistan è ricco di materie prime, in particolare di quelle critiche e fondamentali per la transizione ecologica e digitale. Ci sono addirittura in molte regioni dell’Afghanistan miniere di Litio a cielo aperto, assolutamente non sfruttate.

Lo scenario che stiamo disegnando è quello di una dipendenza completa dalla Cina, che potrà dettare i prezzi delle terre rare, come in parte già sta facendo. L’anticipo di questo fosco futuro lo vediamo già oggi con la scarsità di materie prime in tutti i settori, dal siderurgico agli imballaggi, con la riduzione della produzione anche del settore auto per la mancanza di chip e l’aumento dei prezzi. Un costo che andrebbe a gravarsi su quello già naturale della transizione, con in più la beffa di un aumento dell’inquinamento: le estrazioni di questi minerali hanno un forte impatto per l’ambiente, soprattutto se eseguite senza gli opportuni accorgimenti.

Le priorità immediate sono legate alla sicurezza delle operazioni di salvataggio e soprattutto a comprendere se stiamo mettendo in campo tutti gli strumenti necessari al miglior esito della missione:

  1. prima di tutto, cercando di comprendere concretamente le motivazioni per cui con il primo volo disponibile si è ritenuto necessario far rientrare in Italia l’Ambasciatore. Perché non si è invece considerata la presenza della massima autorità diplomatica necessaria alla gestione delle complicatissime operazioni di salvataggio, al pari di altri colleghi occidentali ancora a Kabul, ad esempio l’ambasciatore francese David Martinon, quello inglese Laurie Bristow e quello in rappresentanza dell’Europa, l’ambasciatore Von Brandt, al sicuro presso l’aeroporto difeso da seimila americani e britannici.
  2. Vista la maggior presenza di personale, soprattutto afghano, nella regione di Herat, perché non si è provveduto ad anticipare le operazioni e a preparare dei piani di esfiltrazione nel momento in cui era purtroppo chiaro il rischio di una rapida avanzata talebana.
  3. Andrebbe compreso anche quali operazioni militari sono in preparazione per il recupero di coloro che non possono raggiungere Kabul, considerando anche che le condizioni di sicurezza anche della stessa Capitale hanno obbligato gli USA a recuperare 169 americani con gli elicotteri dal tetto di un hotel.
  4. Come sono state formate le liste, direttamente da rappresentanti diplomatici e militari, o anche attraverso la segnalazione di privati operanti sul territorio? Quanto possiamo immaginare siano accurate e complete? Quante persone sono già a Kabul e quante ancora in aree remote e quali sono le previsioni di recupero? Se consideriamo che sia Angela Merkel che Joe Biden hanno ammesso di non avere certezza sulle liste di coloro da salvare…
  5. Se di legittimazione o meno, oltre che improprio, è anche prematuro parlare, immagino sia necessaria una interlocuzione con i diversi gruppi talebani presenti sul territorio per le operazioni di rimpatrio: è un fronte unitario o vi è un’interlocuzione con più soggetti locali? Nell’interlocuzione quanta trasparenza sulle liste è stata necessaria? Quanto è alto il rischio che i talebani conoscano già chi intendiamo recuperare e possano raggiungerlo prima di noi?

Queste sono le domande a cui i ministri competenti del governo dovrebbero dare risposta al Parlamento, cioè al Paese.