Pd, primarie infuocate. E Veltroni teme i colpi del fuoco amico
10 Agosto 2007
In tempi non sospetti, diversi attenti osservatori del
(presunto) mito veltroniano e dell’impero capitolino proliferato alla sua ombra
avevano vaticinato che ad impallinare l’irresistibile ascesa del Kennedy de
noantri sarebbe stato il fuoco amico molto più che l’opposizione. In questi
anni l’enorme influenza del macrocosmo economico che ruota attorno al
microcosmo politico del Comune di Roma ha impedito che il pronostico, al di là
di sporadici episodi, assumesse a livello locale una sua concreta consistenza,
nonostante – ad esempio – i lusinghieri risultati conseguiti dalla mozione
Mussi e dalla mozione Angius nel congresso cittadino della Quercia.
Ma la partita all’ultimo sangue per la conquista della
leadership del nascituro Partito democratico sembra aver fatto da “tana libera
tutti”. E l’infuocato esordio della campagna per le primarie del 14 ottobre sta
dimostrando ciò che le spesso inascoltate cassandre capitoline andavano
ripetendo da tempo: che il confronto interno avrebbe logorato l’astro nascente
(in realtà già morto e risorto agli albori del nuovo millennio) di Walter
Veltroni. E reso evidente la falsa partenza impressa dagli apparati dei Ds e
della Margherita ad un percorso di aggregazione che avrebbe potuto rappresentare
una importante opportunità per l’intero sistema politico nazionale, ed invece
sembra condannato ad essere rubricato alla voce “occasioni perdute”.
La fulminea incursione di Marco Pannella e Antonio Di Pietro
nella partita delle primarie ha segnato un primo colpo a sfavore della credibilità
del progetto. Sorvolando sulla posizione del primo, che le saracinesche del Partito
radicale probabilmente non le avrebbe mai abbassate, è infatti difficile liquidare
le argomentazioni del secondo, che la sua “Italia dei valori” forse l’avrebbe sciolta
per davvero, non appena i due azionisti di maggioranza avessero fatto
formalmente altrettanto, e non appena il soggetto “Partito democratico” fosse esistito
compiutamente nella realtà. E ancora più arduo sarebbe dar torto al senatore
ulivista Roberto Manzione, che dopo l’esclusione dalla gara imposta ai due
outsider ha commentato: “Ds e Margherita non si sono affatto sciolti; il
partito di Rutelli ha già fissato la propria festa nazionale il prossimo 3
settembre, per fare un esempio…”.
Il giallo dell’archivio dei votanti alle primarie
dell’Unione del 2005 non ha fatto che peggiorare la situazione. Già, perché
comunque la si metta, la questione costituisce un problema. I possibili esiti
della querelle sono infatti soltanto quattro: a) l’archivio esiste, comprende
dati sensibili ed è stato formato e conservato in violazione della normativa
sulla privacy; b) l’archivio esiste, ma a differenza di quanto a lungo propagandato
dimostra che i votanti effettivi in quelle primarie furono molti meno dei
quattro milioni che fino ad oggi ci hanno fatto credere; c) i custodi del
tesoro avevano pensato di mettere lo scrigno a disposizione di un solo
candidato (indovinate quale), dimostrando una volta di più che quella per la
leadership del Pd è una gara impari, pianificata a tavolino e nient’affatto
“democratica”.
Quanto alla quarta possibile conseguenza dell’incresciosa
vicenda, essa consiste nel pericolo mortale (per Walter Veltroni) che di
“quelle” primarie si parli troppo. Nonostante i sospetti che accompagnarono lo svolgimento
della consultazione del popolo dell’Unione per la scelta del candidato premier,
infatti, va detto che il 74% ottenuto allora da Romano Prodi è un risultato che
va al di là di ogni ragionevole dubbio. E chi il sindaco di Roma non l’ha mai
avuto in simpatia, già pregusta il sapore di sconfitta morale e politica che
accompagnerebbe una eventuale vittoria di Veltroni anche con un solo punto
percentuale in meno. O magari con molti punti in meno, come pronosticato da un perfido
sondaggio diffuso giorni fa dalla community online del prodiano Giulio
Santagata, che vede il superfavorito arenarsi al 52,2%, seguito da Rosy Bindi
(24%) ed Enrico Letta (15,5%).
Raccontano che il “re per un giorno”, disceso dal cielo al
Lingotto di Torino in un clima di attesa messianica, nonostante le partite a calcio balilla sotto il sole
delle Maldive non dorma affatto sonni tranquilli. Chissà, forse l’apparente
unanimismo che ha caratterizzato la sua investitura l’aveva illuso che nessuna
candidatura di peso avrebbe intralciato la scalata alla leadership del Pd e di
qui a Palazzo Chigi. Ora che gli antagonisti sono scesi in campo, e hanno dato
prova di non voler fare sconti, la situazione per l’aspirante “sindaco
d’Italia” si complica. Rosy Bindi, per esempio, l’ha sfidato ad
affrontarla in tv, e a dire quello che pensa: nulla di più pericoloso per chi
sul consenso “leggero” e generalizzato ha fondato le premesse per la
sua scalata al vertice.
Sebbene possa apparire paradossale, Veltroni al momento può
trarre ossigeno dal redde rationem che la triangolare Bindi-Letta-Franceschini
ha scatenato all’interno della Margherita. Mentre farebbe bene a non
sottovalutare l’ostilità latente dei tanti Ds che hanno appoggiato la sua
candidatura per mero spirito di sopravvivenza, e che potrebbero pensarci bene
prima di metterci la faccia qualora la lotta dovesse farsi ancora più cruenta.
In questo clima incandescente, appaiono quasi commoventi gli
sforzi dei supporter della prima ora, che ribadendo a mezzo stampa la propria
convinta fedeltà alla causa del primo cittadino della Capitale, accusano i suoi
due principali avversari di condurre una battaglia “contro” Veltroni
e non “per” il Pd. Sorvolando sulla considerazione che non
necessariamente nell’ottica dei diretti interessati l’una cosa (il
“contro” Veltroni) esclude l’altra (il “pro” Pd), una
simile accusa pronunciata dopo aver consapevolmente coltivato il mito del
candidato unico appare nel migliore dei casi un sintomo di ingenuità, nel
peggiore un segno di malafede.