Appena insediatosi nei giorni scorsi, David McKiernan, il nuovo comandante Usa della missione Isaf in Afghanistan, ha espresso forte preoccupazione per le attività dei militanti talebani e di al-Qaeda lungo la linea Durand, che divide il Paese con il Pakistan. Preoccupazione accresciuta dai recenti accordi conclusi dal governo di Islamabad con alcune milizie talebane nella North-West Frontier Province e nelle aree tribali (Fata) a ridosso del confine afghano.
Ma mentre McKiernan dichiara di voler parlare con Ashfaq Pervez Kayani, il capo delle forze armate pakistane, per risolvere il problema di come esercitare un maggiore controllo lungo la frontiera afghano-pakistana e, più in generale, mentre Stati Uniti e Nato spendono risorse ed energie per liberare l’Afghanistan dalla minaccia delle milizie islamiste, la Cina comincia a entrare pesantemente nel gioco. Alla sua maniera, però, concludendo affari senza rischiare di perdere una goccia di sangue.
Pochi giorni fa, infatti, sono trapelati i termini dell’accordo con il quale i cinesi lo scorso mese si sono assicurati i diritti di sviluppo e di sfruttamento della miniera di rame di Aynak (50 km a sud-est di Kabul), le cui riserve stimate sono di 280 milioni di tonnellate. L’acquisizione di Aynak da parte di Pechino ha fatto particolarmente scalpore per l’ammontare dell’accordo: 3.5 miliardi di dollari, il più alto investimento estero diretto nella storia dell’Afghanistan. Ma non sono tanto i numeri il nodo della questione, ma le implicazioni geopolitiche che ne derivano.
La Cina è impegnata con Stati Uniti e Russia (e in minima parte con Europa, Giappone e India) in una rivisitazione moderna e multipolare del ‘grande gioco’, che nell’Ottocento fino ai primi del Novecento vedeva competere britannici e russi per estendere la loro influenza in Asia Centrale, l’heartland del continente eurasiatico. Controllare questo quadrante geopolitico significherebbe controllare il bacino del Caspio (in particolare il giacimento kazako di Kashagan), dove sono concentrate le maggiori riserve mondiali di gas e petrolio.
Le risorse centro-asiatiche servono alla Cina per sviluppare le sue arretrate regioni occidentali. Per garantirsele i cinesi hanno finora sviluppato una politica di ampio respiro, cha abbraccia anche l’Asia meridionale. Gli esempi di questo attivismo di Pechino sono diversi. La pipeline che collega i giacimenti di gas e petrolio kazaki con la sua regione autonoma del Xinjiang. Lo sviluppo in Pakistan della Karakorum Highway e del porto di Gwadar (una delle stazioni commerciali del cosiddetto ‘filo di perle’ cinese, che si estende dallo Stretto di Malacca al Golfo Persico). Un accordo energetico stipulato con l’Iran del valore di 100 miliardi di dollari e della durata di 25 anni.
Per la Cina, l’Afghanistan è una new entry. Il governo afghano ha espresso compiacimento per il coinvolgimento cinese nello sviluppo del Paese. Kabul ha sottolineato il fatto che Pechino si è dimostrata finora un affidabile partner commerciale per altri Paesi in via di sviluppo, e che i progetti che inizia solitamente sono portati a compimento. Il Beijing Consensus fa dunque proseliti anche tra gli stretti alleati degli Stati Uniti (e della Nato), non solo in Africa e Sudamerica. Questo dovrebbe far riflettere Washington.
Agli occhi americani l’Afghanistan non rappresenta solo il bastione della lotta al terrorismo islamista, ma anche un caposaldo strategico per la penetrazione in Asia Centrale. Gli interessi di Washington nell’area sono cresciuti enormemente negli ultimi anni. Con l’Uzbekistan è stato raggiunto un accordo a marzo per permettere alle forze armate americane di usare la base aerea di Termez (utilizzata anche dai tedeschi), che si trova vicino al confine settentrionale afghano. Per Washington si tratta di un ritorno. Dalla fine del 2001 al novembre 2005, infatti, gli americani hanno mantenuto una base a Khanabad, negata poi dagli uzbeki dopo che la Casa Bianca accusò il governo di Islam Karimov per il massacro di civili ad Andijan (avvenuto nel maggio 2005). Gli Stati Uniti hanno poi un’altra base in Kyrgyzstan, nei pressi della città di Manas, non distante dal confine cinese.
Se gli americani masticano amaro dinanzi alla spregiudicata politica commerciale cinese nella regione, certo i russi non ridono. Mosca considera da sempre l’Asia Centrale come il suo ‘giardino di casa’. La penetrazione cinese rischia di mettere in dubbio il suo preponderante interesse energetico nell’area, dovuto al fatto che la stragrande maggioranza delle risorse energetiche di Kazakhstan, Uzbekistan e Turkmenistan passa attraverso il territorio russo prima di arrivare in Cina (e in Europa).
Il timore russo è che questi Paesi si accordino con Pechino per trasportare direttamente le loro risorse energetiche in territorio cinese. Per dissuaderli, i russi – attraverso il colosso Gazprom – hanno concluso a marzo con le loro ditte statali un accordo con il quale si impegnano a partire dal 2009 a pagare il loro gas a un prezzo maggiorato. Il paradosso è che Russia e Cina sono formalmente alleati nella regione, attraverso la comune appartenenza alla Shanghai Cooperation Organization. Ma quando si parla di energia, al giorno d’oggi, non esistono più ‘partner strategici’, ma solo ‘interessi strategici’.