Pechino tira dritto: il Tibet diventa sempre più cinese
13 Marzo 2008
Il Dipartimento di Stato americano, nel suo periodico rapporto sui
diritti umani nel mondo, ha tolto la Cina dalla lista nera dei maggiori
violatori. Washington riconosce che alcuni miglioramenti ci sono stati, grazie a “riforme
economiche e rapidi cambiamenti sociali”, ma non manca di rilevare come ancora
“non siano state avviate riforme politiche democratiche” e come siano persistenti
“l’oppressione delle minoranze”, specialmente in Tibet, le restrizioni alla
libertà religiosa e di espressione, il maltrattamento e la tortura dei
carcerati.
L’esclusione dalla lista è un riconoscimento importante in vista delle
Olimpiadi (cui gli americani potranno così partecipare senza imbarazzo), ma a
Pechino non è bastato. Il regime ha risposto respingendo tutte le critiche e
pubblicando a sua volta un documento sul mancato rispetto dei diritti umani
negli Stati Uniti, mentre il ministro degli Esteri dava addosso pesantemente al
Dalai Lama. Questi ha lanciato il suo attacco lunedì, 10 marzo, nel 49°
anniversario della sua fuga dal Tibet dopo il fallimento di una ribellione contro
Pechino, che nel ‘52 aveva annesso la regione. Parlando nella città indiana di Dharamsala,
dove si è stabilito con suoi seguaci, formando anche un governo tibetano in
esilio, ha accusato la Cina di “inimmaginabili e gravissime violazioni di
diritti umani” nella sua terra. “Da decenni i tibetani vivono in condizioni di
terrore sotto la repressione cinese. Negli ultimi anni si sono intensificate le
brutalità e la persecuzione. L’ambiente è stato deturpato, le tradizioni e lo
spirito religioso violentati. Con il massiccio trasferimento di cinesi in
Tibet, i tibetani sono divenuti minoranza nella loro stessa patria”.
La durezza del tono è inusuale sulla bocca del Dalai Lama, anche
considerando che in questi anni ha avuto con Pechino diversi contatti, stabiliti
da un suo fratello di stanza a Hong Kong, per chiedere autonomia per il Tibet
lasciando alla Cina la politica estera e di sicurezza. Ma ciò si spiega con
l’infruttuosità delle trattative e con le Olimpiadi. Rifiutando ogni ipotesi di
boicottaggio, il Dalai Lama ha esaltato il fatto che le Olimpiadi sono
“un’occasione d’oro” per fare pressioni su Pechino circa i diritti umani:
“Oltre a mandare gli atleti ai Giochi, la comunità internazionale deve
ricordare questi problemi al governo cinese. La Cina deve provare di essere un
buon ospite garantendo i diritti di libertà”.
La protesta tibetana è di per sua natura non violenta, e tanto più per
la sua risonanza internazionale desta allarme a Pechino, la cui replica non si
è fatta attendere. Lo stesso giorno, a Lahsa, dei monaci scesi in strada per manifestare,
molti sono stati tratti in arresto. Il giorno successivo, un’altra manifestazione
si è svolta davanti alla caserma della polizia per chiedere la liberazione dei monaci
imprigionati; l’intervento delle forze anti-sommossa con manganelli, lacrimogeni,
altri arresti, ha disperso i dimostranti.
La risposta politica è poi venuta direttamente dalle alte sfere del
regime. Molto diplomatico il ministro degli Esteri, Yang Jiechi, parlando dei
rapporti tra Europa e Cina: “Vari paesi europei cominciano a rendersi conto che
la questione del Dalai Lama non è un affare religioso o etnico, ma di sovranità
e integralità territoriale della Cina. La Germania lo ha apertamente riconosciuto,
dichiarando che non sosterrà alcun tentativo del Dalai Lama di cercare ‘l’indipendenza’
del Tibet”. Sprezzante invece il portavoce del ministero: “La cricca del Dalai
Lama parla di rovina della cultura e dell’ambiente. Ma invece la società
l’economia e la cultura tibetana stanno prosperando. La sola cosa distrutta è
il sistema di servitù crudele e cupo che la cricca del Dalai Lama vorrebbe
restaurare”.
Il punto è proprio qui. La Cina non riesce a capire le preoccupazioni
occidentali per il Dalai Lama, spesso rilevando che egli, oltre che leader
religioso, è anche leader politico, ma senza alcuna delle legittimità
democratiche care all’Occidente; e meno ancora capisce le preoccupazioni sul
rispetto della specificità del Tibet, la sua cultura, il suo ambiente non
soltanto geografico e fisico, vantando invece i risultati economici del proprio
dominio, improntato alla modernizzazione su cui si è avviato l’intero paese;
una modernizzazione che ha assunto in Tibet aspetti più forsennati che altrove.
Pechino ha deliberatamente realizzato nella terra del Dalai Lama un’opera di
sinizzazione, accentuata dalle riforme e dall’apertura al mercato. Per decenni,
i cinesi propriamente detti, gli Han, sono stati in Tibet una minoranza,
costituita da funzionari di partito e da militari, benché sempre più numerosa.
Con le riforme, agli spostamenti spontanei di popolazione all’interno del
paese, ha sponsorizzato con incentivi e benefici fiscali l’insediamento in
Tibet di cinesi, attivi in ogni campo dell’attività economica, dall’artigianato
al turismo. Per cui non ha torto il Dalai Lama nell’affermare che i tibetani
sono divenuti minoranza in casa. E’ avvenuto lo stesso nel Xinjiang, regione grande
quanto la Francia, un tempo a maggioranza musulmana, che si assottiglia sempre
di più davanti alla crescente componente Han. Qui il regime ricorre a pugno ben
più duro che in Tibet nel timore di una possibile saldatura della protesta della minoranza
islamica con Al Qaeda, e denuncia complotti terroristici indipendentisti, affermando
di averli sgominati con operazioni militari ed esecuzioni.
Negli stessi giorni dell’intervento del Dalai Lama e delle
manifestazioni di monaci, era in corso a Pechino la sessione annuale
dell’Assemblea del popolo, una sorta di parlamento, e della conferenza
politico-consultiva, un’assemblea di personalità e partiti non comunisti il cui
compito è sostenere il partito comunista. In entrambe le sedi è stato esaltato
il “ruolo positivo della religione nel promuovere l’armonia sociale”:
espressione, quest’ultima, lanciata dal capo del partito e dello stato, Hu
Jintao, a indicare che sotto la guida del partito comunista non vi debbono
essere contrasti sociali o etnici, perché è esso stesso a risolverli e
comporli. E può bastare questo a dire dell’incomunicabilità tra il potere e
l’autentico spirito religioso ancora vivo in Tibet con le sue millenarie
tradizioni.
Nella regione è stata completata nel 2005 un’opera gigantesca: una
ferrovia che collega Lahsa con la Cina interna e da qui fino a Pechino e alle
grandi città, che si snoda per circa mille chilometri a oltre 4.000 metri di
altitudine; i binari installati sul permafrost, ogni carrozza con speciali
impianti per l’ossigenazione dell’aria. Nei giorni scorsi è stato annunciato
che a settembre viaggerà sulla linea un treno speciale superlusso a cinque
stelle. Il treno superlusso sarà per il sightseeing
dei miliardari rossi, che dai vagoni panoramici con i vetri schermati per raggi
utravioletti ammireranno l’esotica regione senza mettervi piede, mentre masse
cinesi continueranno a trasformarla. Repressione a parte, il Tibet, nella
migliore delle ipotesi, sarà sempre un po’ meno Tibet.