Penny Lane è custodita dalle mie orecchie e dagli occhi
12 Agosto 2010
Otto e trenta di lunedì mattina, sorseggio il mio fedele black coffee, cammino a passo sostenuto verso il L19HF di Mount Street. Eccola che parte. Ecco Penny Lane, “in my ears and in my eyes”. Alzo il volume e lo sguardo. L’asfalto diventa vinile. Lì di fronte a me c’è un barbiere che espone foto di ogni taglio di capelli che ha avuto il piacere di vedere, anche se passa del tutto inosservato alla signora Richardson che corre frettolosa verso il portone di casa per timore che le sacche della spesa cedano al peso delle zucche che preparerà con tutta probabilità a Mr. Richardson – dove sono “tutti quelli che vanno e vengono, si fermano e salutano”?
Diluvia. Apro il mio ombrello a pois rossi e bianchi, abbasso lievemente il volume del mio Ipod per sentire lo scroscio della pioggia d’autunno. Volto la testa e all’angolo c’è un banchiere – che stupido, come al solito non indossa mai un impermeabile! – con un’automobile e un bambino lo deride alle sue spalle (come dargli torto).
Sfilo i miei auricolari, qualcosa sfugge ai miei occhi. Fermo Edward, libri in mano, canticchia Matisyahu. “Dov’è finito il pompiere con una clessidra e in tasca un ritratto della Regina?”, gli chiedo. Lui scuote la testa. “Dov’è la Penny Lane di Paul, ne mancano dei pezzi!”, insisto. Lui: “Paul? Quale Paul?”. “Ma i Beatles no?” – mi indispettisco. Lui: “Ah già, i Beatles. Ad ogni modo non ricordo le parole di questa fantomatica Penny Lane”. Come è possibile? Questa pioggia insistente ha sbavato quelle parole che McCartney ha voluto scolpire nel tempio della musica? Possibile che agli abitanti di questo angolo di periferia pettinata non sia rimasto neppure un verso di quell’omaggio?
Re-inforco i miei auricolari e la delusione, quella a cui non riesco ad abituarmi da quando mi sono trasferita qui, lascia il posto a quella marcetta da collegio che racchiude un mondo: la Liverpool di fine anni ’60. Scivolo – non sull’asfalto levigato dalla pioggia, ma sulle note. Un raggio di sole squarcia il cielo plumbeo e sembra quasi che sia arrivata l’estate. Intanto dietro di me, dietro la tettoia nel mezzo di una giostra la bella balia vende papaveri su un vassoio e si sente come se fosse in un gioco (c’è di sicuro).
Mi siedo, sorseggio quel che resta del mio caffè, Penny Lane è nelle mie orecchie e nei miei occhi, ma sono alla soglia del terzo minuto. La musica incalza con trombe, cori e ritornelli e io continuo a stupirmi del fatto che a molti residenti ancora oggi suoni strano che qualcuno abbia più e più volte rubato quel cartello stradale bianco (Penny Lane L 18) o che vengano addirittura dall’altro capo del mondo per riempirsi gli occhi di questa strada leggendaria e provare l’ebbrezza di calpestarla.
Quel 45 giri classe 1967 (Penny Lane/Strawberry Field Forever) era una storia a sé stante. Di simile agli altri aveva la forma, il contenuto sarebbe diventato mito. Qui, però, sembra essere stato schiacciato dalla grigia quotidianità. Eppure ogni singolo luogo descritto e musicato da McCartney è lì, a portata di sguardo, come una sorta di punto di non ritorno emotivo. Forse, però, lo è per un manipolo di nostalgici che hanno sentito Penny Lane sganciarsi da se stessa per volare verso i “blue suburban skies”. Io sono sicuramente tra questi.
Prendo in mano l’Ipod e faccio scivolare il pollice sul bottoncino ‘off’. La marcetta che ha il sapore di una colazione consumata prima di andare a scuola (per l’appunto) inizia a sfumare. Eccomi all’ingresso del Liverpool Institute. Suona la campanella, ripongo assieme ai miei auricolari visioni e sogni nella borsa. Almeno fino a domani mattina.