Pensioni d’anzianità, di reversibilità e d’invalidità: ecco dove c’è da riformare
25 Ottobre 2011
La previdenza resta al centro del tavolo delle riforme. Tre le ipotesi allo studio: anticipo al prossimo anno (anziché 2013) dell’aggiornamento dei requisiti di pensione (sia di vecchiaia che di anzianità) alla speranza di vita; innalzamento dell’età per la pensione di vecchiaia da 65 a 67 anni; anticipo della quota ’97’ (almeno 61 anni d’età e 36 anni di contributi) per la pensione di anzianità oppure addirittura introduzione di una quota ‘100’ per un minimo di 40 anni di contributi e 60 anni di età. Delle tre, tuttavia, sembrerebbe l’anticipo delle quote l’ipotesi più accreditata e su cui il governo e la maggioranza potrebbero trovare l’accordo e rispondere alle sollecitazioni del Consiglio europeo.
Una soluzione buona e giusta, atteso che ancora oggi l’età media di chi esce dal lavoro per anzianità è a 58 anni. Ci sarebbe, però, anche una soluzione alternativa, magari da affiancare all’innalzamento della quota per l’anzianità. E’ la soluzione di anticipare il taglio di spesa sul fronte dell’assistenza.
Una soluzione già studiata e disciplinata normativamente nel disegno di legge delega per la riforma fiscale e assistenziale (atto camera n. 4556). Se le pressanti richieste dell’Ue – dalla famosa lettera della Bce fino al consiglio dei ministri europei dell’altro giorno – mirano tutte a sollecitare ulteriori risparmi di risorse pubbliche, perché non incidere decisamente sul bilancio dello Stato alla voce “previdenza” ma per la quota che previdenza non è?
Questo governo ha già fatto tanto in materia di pensioni, chiedendo molti anni in più di lavoro alle generazioni attive (quelle più giovani che devono ancora andare in pensione). Per ottenere oggi la pensione di vecchiaia occorre l’età di 65 anni se uomini e di 60 anni se donne del settore privato; quest’ultima età (per le donne), tuttavia, comincerà a crescere dall’anno 2014 e arriverà a 65 anni nell’anno 2026.
Nel settore pubblico, invece, dal prossimo anno uomini e donne andranno tutti in pensione di vecchiaia a 65 anni. Dall’anno 2013, inoltre, scatterà l’ulteriore incremento dei requisiti di pensionamento per via della speranza di vita. Il primo incremento sarà di tre mesi e poi si procederà in base alla variazione della speranza di vita: se la probabilità si allunga, quel di più (quei mesi in più di speranza di vita) andrà lavorato, mediante un allungamento del requisito di età per la pensione. E non è tutto.
Va ricordata, infatti, l’introduzione della finestra mobile: un espediente per elevare indirettamente l’età effettiva di pensionamento, stabilendo un termine alla decorrenza della pensione: di questo, però, le statistiche non sembrano tenerne molto conto.
Il lavoratore dipendente che arriva a 65 anni ottiene il diritto alla pensione di vecchiaia; ma per ottenere il primo assegno di pensione deve aspettare ulteriori 12 mesi (18 mesi se è un lavoratore autonomo, come artigiani e commercianti). Pertanto, l’età effettiva di pensionamento è già oggi a 66 anni (dal 2013 sarà 66 anni e tre mesi).
Ma di questo non si tiene conto nei paralleli con gli altri Paesi partener europei: la Spagna deve ancora raggiungere l’età di 65 anni; la Francia è ancora ferma a 62 anni; solo la Germania è a 67 anni. Dunque, l’Italia è 9 mesi indietro ai tedeschi, ma molto più avanti di Francia e Spagna.
E’ vero che il nodo principale restano le pensioni di anzianità. Che, ancora oggi, permettono di andare in pensione tempo prima dei 60/65 anni. Chi comincia a lavorare a 18 anni, con 40 anni di contributi può andare in pensione all’età di 58 anni. Anche in questo caso, tuttavia, va tenuto presente che c’è una finestra mobile per la decorrenza della pensione. Finestra, peraltro, più lunga di quella prevista per le pensioni di vecchiaia.
Dal prossimo anno, infatti, chi matura la pensione con il massimo dei contributi (appunto, con i 40 anni di servizio) dovrà lavorare un mese in più per poter incassare il primo assegno di pensione, ossia 13 mesi se è un lavoratore dipendente 19 mesi se è lavoratore autonomo; dal 2013 dovrà lavorare due mesi in più (ossia, rispettivamente, 14 e 20 mesi) e a partire dal 2014 tre mesi in più (ossia 15 e 21 mesi).
Delle tre ipotesi allo studio, in conclusione, l’anticipo della quota ’97’ (almeno 61 anni d’età e 36 anni di contributi) per la pensione di anzianità oppure addirittura introduzione di una quota ‘100’ per un minimo di 40 anni di contributi e 60 anni d’età potrebbe risultare la soluzione buona e giusta. Ma non è da tralasciare la soluzione alternativa di anticipare il taglio di spesa dell’assistenza.
Se le pressanti richieste dell’Ue mirano tutte a sollecitare ulteriori risparmi di risorse pubbliche, erché non incidere decisamente sul bilancio dello Stato alla voce “previdenza” ma per la quota che previdenza non è?
Prendiamo la voce reversibilità: la spesa è di oltre 35 miliardi di euro per circa 4 milioni di pensionati! Perché deve comunque essere garantita una quota di pensione anche al coniuge già titolare di una sua pensione? Altra voce: le pensioni di invalidità. La spesa è di oltre 32 miliardi; nel 2010 l’Inps ha revocato circa il 25% di prestazioni ai furbetti.
Insomma, tra pensioni ai superstiti e pensioni ad invalidi la quota di spesa arriva ai 60 miliardi di euro l’anno. Un terzo della spesa pensionistica complessiva che, nel 2010, è stata di 190,453 miliardi di euro comprensivi di 13,083 miliardi per indennità di accompagnamento.