Pensioni, due giorni di “refusi” non fanno fare bella figura al Governo
02 Luglio 2010
Cronaca di due giorni di “refusi” governativi. Mercoledì: per andare in pensione non basteranno più 40 anni di contributi. Giovedì (mattino): dal 2016 i requisiti di pensionamento verranno agganciati alla speranza di vita degli italiani: più questa aumenta più si allontana l’uscita dal lavoro. Ancora giovedì (pomeriggio): la stima della relazione tecnica alla riforma spiega che, dal 2050, per andare in pensione a prescindere dall’età bisognerà lavorare 43,5 anni invece di 40 anni come ora previsto. Infine, giovedì (sera), il dietrofront: «coloro che hanno accumulato 40 anni di contributi sono sottratti» all’aggancio alla speranza di vita dei requisiti di pensionamento.
La dichiarazione del ministro del lavoro, Maurizio Sacconi, precisa: «non era intenzione né mia, né di Tremonti né di Azzollini (il relatore al Senato del disegno di legge di conversione del dl n. 78/2010 con la manovra correttiva che prevede la riforma pensionistica, ndr) negare la possibilità di andare in pensione a coloro che maturano 40 anni di contributi», concludendo che quell’aspetto «verrà cancellato».
La novità esplode giovedì mattina quando dai quotidiani si apprende la notizia della poderosa riforma delle pensioni, contenuta in un emendamento del relatore Antonio Azzolini, la quale stabilisce che per andare in pensione non basteranno più nemmeno 40 anni di lavoro. La riforma vuole che, dal 1° gennaio 2016, tutti i requisiti di pensionamento siano aggiornati, ogni 3 anni, sulla base dell’incremento della speranza di vita calcolata dall’Istat. Un adeguamento con riferimento non soltanto all’età di pensionamento, ma pure al requisito unico dei 40 anni di contribuzione che consente di andare a riposo a prescindere dall’età.
L’adeguamento periodico dei requisiti di pensionamento alla speranza di vita è stato previsto dalla manovra dello scorso anno (dl n. 78/2009), rimettendo a un decreto interministeriale l’emanazione delle norme attuative. A tanto provvede l’emendamento alla manovra di quest’anno (dl n. 78/2010) presentato dal relatore. Con una prima novità che è lo spostamento in avanti di un anno dell’entrata in vigore dell’adeguamento: dal 1° gennaio 2016, anziché dal 1° gennaio 2015 come prevedeva originariamente il dl n. 78/2009.
In base al testo dell’emendamento, l’adeguamento dei requisiti di pensione verrà fatto a cadenza triennale (2016, 2019 e via dicendo) in relazione alla speranza di vita che gli italiani vantano all’età di 65 anni, calcolata dall’Istat. Ogni qualvolta, alla scadenza del triennio, dovesse risultare che gli italiani vivono di più bisognerà anche lavorare di più prima di andare in pensione. Un “di più” pari proprio all’aumento della speranza di vita. In sede di primo aggiornamento (dal 1° gennaio 2016), la maggiorazione dei requisiti non potrà superare i 3 mesi; e se dovesse risultare una diminuzione della speranza di vita, non verrà fatto alcun aggiornamento.
L’adeguamento interesserà tutti i requisiti di età per la pensione: vecchiaia, anzianità, settore privato e pubblico impiego. A tal fine, a cominciare dall’anno 2014, l’Istat renderà disponibile ogni anno, entro il 30 giugno, il dato relativo alla variazione della speranza di vita nel triennio precedente. Riguarderà pure le “quote” che dal 2013 sono fissate a 97 (con età minima a 61 anni) per i lavoratori dipendenti e a 98 (con età minima a 62 anni) per i lavoratori autonomi. E – questa la parte più controversa e destinata a scomparire – riguarderà pure il requisito unico di anzianità contributiva di 40 anni che consente di andare in pensione a prescindere dall’età.
La relazione tecnica alla riforma viene resa nota giovedì pomeriggio. I numeri a dire la verità, sono davvero confortati: soprattutto per le casse dello Stato. Stando alle stime fornite dalla relazione sulla base dei dati Istat, chi comincia a lavorare quest’anno potrebbe trovarsi a dover lavorare 3,5 anni in più prima di andare in pensione, perché il cumulo degli adeguamenti triennali dal 2016 al 2050 sarà proprio pari a circa 3,5 anni. Appunto: chi comincia a lavorare quest’anno pensando di poter andare in pensione con 40 anni di contributi nel 2050, dovrà rifare i suoi progetti: a quell’epoca, il massimo di lavoro ai fini pensionistici salirà a 43,5 anni. Sono soltanto ipotesi, certo; ma suffragate dallo scenario demografico dell’Istat che viene preso a riferimento. E questo scenario prevede che il primo aggiornamento, dal 1° gennaio 2016, sarà pari a 3 mesi, che è però il limite massimo fissato dalla riforma e di misura più bassa rispetto al reale incremento della speranza di vita risultante dal triennio precedente che sarà, secondo l’Istat, di quattro mesi. Sempre l’Istat stima che i successivi adeguamenti triennali, a partire dal 2019 in poi, saranno pari a 4 mesi fino a circa l’anno 2030 e attorno a 3 mesi fino all’anno 2050. Complessivamente, all’anno 2050 la variazione risulterà pari a circa 3,5 anni. Volendo dunque prevedere lo scenario dell’anno 2050, per andare in pensione servirà un’età di 68,5 anni o, in alternativa, i 40 anni di contributi. Gli effetti della riforma cominceranno a farsi sentire già nei primi anni. Sempre la relazione tecnica stima che sia pari a circa 400 mila il numero di soggetti annui che matureranno i requisiti nel periodo 2016/2020. Se per i lavoratori si tratterà di restare al lavoro qualche anno in più, a migliorare saranno certamente i conti dello Stato. La riforma assicura un risparmio di circa 60 milioni di euro nel 2016, che crescerà negli anni per diventare oltre 3 miliardi di euro nel 2020.
Non è certo una bella figura quella che ha fatto il Governo con questo balzano balletto di conferme e di smentite. La facilità con cui la riforma è stata inserita e adesso verrà cancellata dal testo del ddl di conversione della manovra correttiva denota – sia concesso – quanto meno un “disorientamento” sul come e sul quando ci si vuole muovere sulle sabbie mobili delle pensioni.
Si è toccato un caposaldo del nostro sistema pensionistico: l’unica “certezza” in mano ai lavoratori nel durante dei numerosi e variegati interventi di riforma. E’ cambiato il criterio di calcolo delle pensioni (dal retributivo al contributivo); è avanzata l’età di pensionamento; sono state introdotte le finestre; e poi le quote; e si è fatto altro ancora, ma in tutti questi ambaradan i lavoratori hanno sempre potuto afferrarsi all’unica certezza in mano loro: dopo 40 anni di lavoro potrò riposare con una rendita di mantenimento (la pensione). Un caposaldo che è comune a tutti i sistemi pensionistici europei. Chi sarebbe rimasto penalizzato dalla modifica? I più fortunati sul mercato del lavoro: chi sia riuscito (o riuscirà) a occuparsi in giovane età. Solo costoro, infatti, potrebbero far valere un giorno il tagliando di 40 anni di lavoro prima dell’età pensionistica di 65 anni a regime che, manco a farlo apposta, coincide con il periodo di lavoro che ha davanti a sé chi si occupa in età media, oggi attorno ai 25 anni.
Gira e rigira il problema resta sempre lì. E’ il problema, più preoccupante, della tenuta del sistema pensionistico. Che non significa solo ed esclusivamente far rientrare i conti della spesa pensionistica nei parametri del bilancio pubblico, ma piuttosto la preoccupazione che questi conti quadrino con un adeguato livello di tutela garantito ai cittadini, oggi lavoratori e domani pensionati.