Pensioni, ecco perché questa riforma è destinata a stabilizzarsi

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Pensioni, ecco perché questa riforma è destinata a stabilizzarsi

20 Luglio 2007

L’accordo sulle pensioni può non piacere a molti, ma sembra destinato a diventare la regola per la previdenza degli anni a venire. Lasciamo stare la nostalgia dello scalone, l’idea dell’innalzamento repentino da 57 a 60 anni dell’età minima per la pensione di anzianità aveva un suo fascino decisionista ma serviva più per fare contente le autorità economiche di Bruxelles che per essere applicata nella realtà.

Nella vita vera e nella politica vera servivano regole più diluite, questo lo sapeva benissimo anche l’autore dello scalone, Roberto Maroni. E quelle regole, pur con tutte le riserve del caso, ora sono arrivate. L’età minima per la pensione di anzianità sale subito a 58 anni, poi si arriva gradualmente a 61 nel 2013, passando comunque per l’innalzamento a 59 nel 2009 e a 60 dal 2011, anni in cui, comunque, entra in vigore il sistema della quote per cui l’accesso al pensionamento anticipato prevedrà l’obbligo di una determinato livello minimo come somma tra età anagrafica e anni di contribuzione. Per i lavoratori autonomi le regole sono riviste secondo lo stesso criterio, ma tutte le soglie minime sono innalzate di un anno. C’è poi un intervento molto tecnico sulle cosiddette finestre, cioè i momenti dell’anno in cui è materialmente possibile il pensionamento (tramite domanda, uscita dal lavoro attivo e avvio del pagamento della pensione). La riforma Maroni intendeva ridurle da quattro a due all’anno. L’accordo tra governo e sindacati stabilisce invece che tornino a essere quattro. Significa, per i lavoratori, guadagnare qualche mese di anticipo del pensionamento e per Inps e Stato affrontare 3 miliardi e 700 milioni di maggiore spesa. Nell’accordo si prevede, però, che questa spesa debba essere compensata nel sistema previdenziale e la possibilità di copertura dovrebbe essere nell’introduzione delle finestre, sempre quattro, anche per il pensionamento di vecchiaia (quello che si realizza al compimento dei 60 anni per le donne e dei 65 per gli uomini). Più finestre per l’anzianità verrebbero pagate con qualche mese di rallentamento dei pensionamenti di vecchiaia.

I costi della riforma generale, cioè i costi della rinuncia allo scalone, ammontano a circa 10 miliardi di euro. A pagare saranno in gran parte i parasubordinati, anche quelli non impegnati in lavori continuativi. Insomma saranno i contributi a carico dei precari, in vista di ulteriore innalzamento, a finanziare quasi metà del costo complessivo. Il resto è finanziato un po’ per finta, cioè immaginando 3 miliardi e mezzo di risparmi grazie all’accorpamento di vari enti previdenziali e con altre misure che non reggerebbero facilmente a un esame attento.

E infatti l’esame, anche se per forza ancora sommario, dice che le cose non vanno bene. Lo dicono le maggiori agenzie di rating mondiali, come Standard & Poor’s e Fitch, preoccupate per l’impatto dell’abolizione dello scalone sui conti pubblici.

Tuttavia, mentre l’opposizione lamenta l’accordo troppo generoso con i sindacati e mentre la sinistra interna si lamenta per ragioni opposte, questa riforma sembra destinata, come si diceva, a stabilizzarsi. Nessuna forza politica, dopo la notte di Palazzo Chigi, avrebbe il pur minimo interesse a riaprire la partita sull’età di pensionamento (mentre quella dei coefficienti, cioè dell’importo delle future pensioni, verrà riproposta, ma nel giro di qualche anno e sulla scorta di dati statistici molto forti, per cui potrebbe essere derubricata a questione puramente tecnica e non politica).

Lo stesso centrodestra, che comprensibilmente ora protesta per la cancellazione della sua riforma, ha comunque dei vantaggi di prospettiva dalla rimozione di un tema micidiale come quello delle pensioni dall’agenda politica.