Pensioni: sul sistema contributivo pesano troppi luoghi comuni

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Pensioni: sul sistema contributivo pesano troppi luoghi comuni

27 Ottobre 2008

"La ricetta è semplice: ‘lavorare di più, in più e più a lungo’. Perchè allungare l’età pensionabile e aumentare la produttività del lavoro sono le uniche vie percorribili per ‘il mantenimento e l’espansione del livello di vita raggiunto nel nostro paese’". Queste parole non sono tratte dal discorso pronunciato da Walter Veltroni al Circo Massimo. E neppure – diciamoci la verità – sono farina del sacco di qualche ministro del centro destra. L’appello arriva dal vice direttore generale di Bankitalia, Ignazio Visco, il quale ha sottolineato (nel suo intervento durante la 49° riunione scientifica della Società degli Economisti italiani in corso a Perugina), come, nel lungo periodo, l’invecchiamento della popolazione costringerà a ritoccare, nuovamente al rialzo, l’età in cui si entra in pensione.

Il Governo, impegnato su tanti fronti, non ritiene di infilarsi, nei prossimi mesi, nella trappola delle pensioni. Ma la realtà è più forte del tatticismo politico. Nel Libro verde, presentato a luglio dal ministro Maurizio Sacconi, emergono con chiarezza le preoccupazioni per il peso eccessivo delle spesa previdenziale nell’ambito dell’intera spesa sociale, soprattutto in vista degli effetti che saranno prodotti dall’invecchiamento della popolazione sulla struttura e sui costi della sanità. Basti pensare che l’Italia ha già oggi una quota di popolazione ultrasessantenne pari a quella che gli Usa avranno nel 2040.

Se si lavora più a lungo, si contribuisce anche ad allargare la platea degli occupati. Non a caso le indicazioni della Ue assumevano tra gli obiettivi da raggiungere entro il 2010 l’aumento del tasso di occupazione femminile e degli anziani, unitamente con l’elevazione di cinque anni dell’età pensionabile effettiva. ”E’ necessario – ha sostenuto Visco – sfruttare appieno i margini ancora inutilizzati dell’offerta di lavoro, in particolare nella componente femminile, e quelli che, per l’allungamento della speranza di vita ed il miglioramento delle condizioni di salute in età più avanzate, si renderanno disponibili in futuro, rimuovendo ad esempio vincoli quali quello di un’età di pensionamento prefissata e costante nel tempo”. E’ l’idea del ripristino di un pensionamento flessibile proposto, nelle sue Considerazioni finali, dal Governatore Mario Draghi. La stessa idea è contenuta in una proposta di legge (AC 1299 di cui sono primo firmatario) dove è prevista la possibilità di andare in quiescenza in un ambito compreso tra 62 e 67 anni di età sia per gli uomini che per le donne. 

Nella mia proposta di legge è contenuta un’altra norma. L’estensione pro rata del calcolo contributivo, a partire dal 2009, anche ai lavoratori che la legge n.335/1995 ha mantenuto nel sistema retributivo, perché avevano almeno 18 anni di contribuzione versata. Questa norma ha suscitato un vespaio di proteste in tutta Italia. Tanto che ormai è divenuto un caso di costume che merita di essere raccontato.

Approdato alla Camera mi sono adoperato per mettere a frutto, con una proposta di legge, un ventennio di lavoro nel campo della previdenza. Fino dall’inizio ho sempre saputo che la mia iniziativa (assunta insieme a 17 colleghi della maggioranza ed una dell’opposizione) era destinata, comunque, ad un lungo periodo di stand by, dal momento che l’attuale Governo, in tante "altre faccende affaccendato" non ha intenzione di aprire il fronte delle pensioni (tranne che per gli aspetti – lavori usuranti e coefficienti di trasformazione – iscritti nell’agenda del ministro Sacconi). Mi bastava far circolare dell’idee per quando sarebbe arrivata l’ora x. Eppure, nonostante che la mia proposta sia parcheggiata lungo un binario morto in Commissione Lavoro, da mesi vengo investito non solo da comunicati di protesta di organizzazioni sindacali (del pubblico impiego e delle forze dell’ordine, in particolare) ma anche da centinaia di e-mail (alle quali rispondo sempre) di tante persone comuni, preoccupate per la loro pensione, che chiedono spiegazioni e minacciano di precipitarsi in quiescenza. Vengo apostrofato dalla vicina di casa impiegata alle Finanze, fermato per strada da amici di infanzia. Altri si rivolgono a miei parenti. Ovunque mi rechi per motivi di lavoro, incontro sempre delle persone che hanno letto o sentito parlare della mia proposta di legge.

La stessa esperienza capita non solo ai colleghi e alle colleghe che hanno (ahi loro !) sottoscritto la proposta (che mi chiedono perché li ho trascinati in quell’avventura), ma anche ad altri parlamentari della maggioranza che, nei loro collegi, vengono investiti dalle rampogne dei loro elettori. In tutto il paese vengono distribuiti volantini in cui, in conseguenza del mio progetto, vengo additato al pubblico ludibrio, insieme al mio amico Brunetta.

Che cosa ha scatenato tanto putiferio ? La "pietra dello scandalo" sta nell’articolo 1 comma 1, lett. d) che prevede l’applicazione pro rata, con decorrenza dal 1° gennaio 2009, del sistema contributivo anche ai lavoratori più anziani, quelli che la legge n.335/1995 aveva mantenuto nel calcolo retributivo. Si tratta di una misura razionale ed equa (sostenuta fin dal 1995 dalla Cgil e dalla sinistra riformista) per niente lesiva dei c.d. diritti acquisiti. Il concetto di pro rata, infatti, ha un significato preciso. Nella fattispecie (ipotetica) prefigurata nella mia proposta di legge, ai versamenti effettuati fino al 31.12.2008 continuerebbe ad applicarsi il metodo retributivo, mentre quello contributivo varrebbe solo per gli anni dal 2009 in poi. La pensione risulterebbe dalla somma dei due importi calcolati. Quanti, il 31.12.1995, avevano i requisiti (almeno 18 anni di anzianità) richiesti per restare nel retributivo, alla fine di quest’anno ne avranno almeno 31; in altre parole, gli anni sottoposti al computo contributivo sarebbero comunque pochi. Poi, dove sta scritto che tali trattamenti riceverebbero un danno? Sul sistema contributivo vi sono troppi luoghi comuni. Se si ragionasse in termini sereni e documentati si scoprirebbe che tale metodo di calcolo non è affatto uno strumento di "macelleria sociale" e che talvolta – come nell’ipotesi affacciata nel AC 1299 – potrebbe persino essere più vantaggioso per i lavoratori. Prendiamo il caso di un dipendente che, a 60 anni di età, abbia già maturato un requisito di anzianità pari a 40 anni. Secondo le regole vigenti del retributivo per questo lavoratore i 40 anni di servizio costituiscono un tetto invalicabile, per cui, se continuasse a lavorare, non avrebbe alcuna ricaduta sulla pensione (eccezion fatta per l’eventuale incremento della retribuzione pensionabile). Se la mia proposta fosse legge, invece, dal 2009 per quello stesso lavoratore ripartirebbe il conto di altri 5 anni con il calcolo contributivo, se volesse proseguire nell’attività lavorativa fino al sessantacinquesimo anno di età: andrebbe in pensione con un’anzianità di 40 anni nel retributivo e di altri 5 anni nel contributivo, tutti utili ai fini dell’importo della prestazione. Quanto è difficile in Italia il mestiere del riformista!