Pentiti dei pentiti? No, ma sarebbe utile tornare al “metodo Falcone”

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Pentiti dei pentiti? No, ma sarebbe utile tornare al “metodo Falcone”

31 Marzo 2010

Il trentenne Giuseppe Pellegritti, uno dei picciotti del capocosca Peppe Alleruzzo, finisce in carcere il 16 febbraio del 1986. All’epoca il clan degli Alleruzzo controlla i paesi della Piana di Catania, sotto la cattiva stella del boss Nitto Santapaola. Non è un uomo d’onore di spicco, questo Pellegritti. Lo descrivono come un pecoraio più violento di altri, che ha ammazzato una dozzina di pastori e contadini nella guerra mafiosa per il controllo delle campagne siciliane. Dopo l’arresto rimane muto come un pesce di fronte ai giudici che lo interrogano su vittime e mandanti, ma un bel giorno la protezione dei suoi santi in paradiso finisce. I killer delle cosche rivali ammazzano Santo Alberuzzo e Lucia Anastasi, rispettivamente il figlio e la moglie del boss. Poi tocca ad Agatino, il fratello minore di Pellegritti, bruciato vivo in una macchina. Nell’ottobre del 1987 viene fatto fuori suo padre Filippo.

Finalmente il picciotto si decide a collaborare. La mafia è cambiata, dice, Cosa Nostra ha perso il suo onore, colpisce donne e persone indifese, e non sappiamo se lo dice solo per darsi una riverniciata alla coscienza o perché ci creda veramente. E’ il modello del ‘pentimento nobile’ di Salvatore Buscetta – motivato dalla “degenerazione” della mafia. Pellegritti dichiara di non volere sconti di pena (infatti lo condannano all’ergastolo); grazie alle sue dichiarazioni, e a quelle di Alleruzzo, la polizia esegue un centinaio di ordini di cattura. Alla fine degli anni Ottanta, il pentito verrà considerato attendibile un’ottantina di volte dai magistrati che indagano sulle cosche alle pendici dell’Etna.

Interrogato nel carcere di Catania, Pellegritti si auto-accusa dell’omicidio di Giuseppe Fava, il giornalista siciliano freddato con cinque colpi alla testa dalla mafia nel gennaio del 1985. Sono il mandante, confessa, ho appaltato di persona l’esecuzione di Fava al killer Antonino Cortese, per fare un favore a Nitto Santapaola. Cortese viene arrestato e Pellegritti vede salire le sue quotazioni. Lo spostano nel carcere di Augusta, dove viene ascoltato per la prima volta dalla Corte d’Appello che si sta occupando del maxi-processo alla mafia. In seguito, lo trasferiscono per ragioni di sicurezza nella casa circondariale di Alessandria.

Qui Pellegritti incontra in cella il sedicente neofascista Angelo Izzo, “il boia del Circeo”, condannato all’ergastolo per stupro e omicidio. I due entrano subito in confidenza. Pellegritti è preoccupato per la sua incolumità, Izzo è un abile manipolatore che ha capito come sfruttare le distorsioni e i punti deboli del pentitismo. I due mirano ad accumulare benefici di pena giocando una partita disonesta con la giustizia italiana.

Nell’agosto del 1989 Pellegritti incontra il magistrato bolognese Libero Mancuso e alza il tiro: a ordinare il delitto di Piersanti Mattarella, il presidente democristiano della Regione Sicilia, racconta, fu il “cassiere della mafia” Pippo Calò, mentre l’esecutore materiale va cercato fra i “neri” – quel Valerio Fioravanti contattato dalla mafia grazie ai buoni uffici della Banda della Magliana. Sembra di essere in un plot alla De Cataldo, tutto si tiene in questa grande cospirazione. Il pentito dice di conoscere anche il nome del grande burattinaio che ha ordinato l’omicidio, una figura di primo piano dei palazzi del potere italiano: “A dirmi chi è il mandante politico dell’assassinio è stato Nitto Santapaola”, spiega ai giudici, “Mattarella dava fastidio alla famiglia Costanzo di Catania, che prendevano appalti da Palermo. E infastidiva anche un esponente della Dc molto noto…”.

Le rivelazioni moltiplicano i sospetti che circolano sull’eurodeputato Salvo Lima, democristiano della corrente andreottiana, nell’anno in cui il “Divo Giulio” si è guadagnato per la sesta volta la presidenza del Consiglio. Di Lima si è già interessata l’Antimafia, anche se le dichiarazioni rilasciate da altri pentiti non sembrano aver aggravato la posizione giudiziaria dell’uomo politico. Pellegritti lancia l’amo e riapre il caso Mattarella, poi torna in cella dove lo aspetta Izzo. I due riprendono a consultarsi.

Nell’estate del 1989, l’allora sostituto procuratore aggiunto Giovanni Falcone è appena scampato all’attentato dell’Addaura. Oltre alle bombe e alla canicola, deve fare i conti con le malevoli lettere del “Corvo”. Falcone ascolta Pellegritti il 17 agosto: “Secondo quanto mi ha riferito Nitto Santapaola – gli dice il pentito – l’uomo politico interessato alla uccisione dell’Onorevole Mattarella era l’Onorevole Salvo Lima”. Falcone ascolta la ricostruzione con grande attenzione, riflettendo sui nomi e le biografie dei killer indicati dal pentito. Il giudice conosce bene la fauna mafiosa e qualcosa, nel racconto di Pellegritti, non torna. Emergono delle contraddizioni: il presunto esecutore materiale dell’omicidio, il giorno della morte di Mattarella, si trovava già in carcere. “Sono nato nello stesso quartiere di molti di loro. Conosco a fondo l’anima siciliana,” scriverà Falcone in Nel dramma dei pentiti. “Da una inflessione di voce, da una strizzatina d’occhi, capisco molto di più che da lunghi discorsi”.

Il giudice dell’Antimafia teme i falsi pentiti che spacciano fandonie e notizie artefatte per ragioni personali o per depistare le indagini. “Era molto preoccupato,” ha ricordato il giudice D’Ambrosio che all’epoca ricevette una visita di Falcone a Roma, “Mi disse: ‘Pellegritti mi ha teso una trappola, ha detto cose che non sono vere. E’ una falsa pista che non porta da nessuna parte. Ma se non la seguo mi diranno subito: Perché non vuoi incriminare Lima?’”. Falcone non può correre rischi, il maxi-processo è in appello e se un rimestatore di professione come Pellegritti dovesse farla franca l’intero impianto accusatorio comincerebbe a sgretolarsi.

Il giudice si muove rapidamente e il 21 agosto parte una richiesta istruttoria dalla Procura di Palermo. Negli atti depositati, Falcone spiega che il pentito non sta dicendo la verità. Il giorno dopo, Pellegritti viene interrogato dalla Corte d’Assise d’Appello nel carcere di Alessandria, dove conferma il teorema su Lima mandante dell’omicidio Mattarella. Se fosse vero, sarebbe un colpo da cui difficilmente il presidente del Consiglio Andreotti potrebbe riprendersi. Il 4 ottobre, Falcone firma un mandato di cattura per "calunnia continuata" contro Pellegritti. E’ una reazione dura ma necessaria, che in poco tempo spinge il pentito a ritrattare le sue dichiarazioni, scaricando ogni responsabilità sul suo compagno di cella: “Sono rimasto vittima della mia megalomania – confessa – mi sono lasciato indurre da Angelo Izzo a riferire dati dei quali non ero assolutamente a conoscenza”.

In fondo dovrebbe essere questa la funzione dei pentiti, loro confessano e il giudice che se ne serve ha il compito di accertare ogni dichiarazione che fanno con dei riscontri oggettivi. Con il passare del tempo, però, la figura del pentito si è profondamente delegittimata, tanto da rendere necessaria – è una richiesta che arriva da più parti – l’istituzione di una commissione d’inchiesta parlamentare che faccia luce sulla gestione dei collaboratori di giustizia, per metterci al riparo dalle loro suggestioni. Quando si scopre che un pentito sta mentendo, infatti, è la stessa opinione pubblica a perdere fiducia nella giustizia, con una ricaduta moralmente assolutoria verso i mafiosi e quegli esponenti della classe politica chiamati a difendersi in tribunale dall’accusa di collusione mafiosa. “I magistrati – ha scritto il siciliano Roberto Alajmo parlando del dichiarante Ciancimino (junior) – hanno avuto maestri tali che bisogna munirsi di guanti da forno molto spessi, prima di azzardarsi a toccare la teglia”.

Torniamo a Falcone per scoprire cosa accadde dopo l’incriminazione di Pellegritti. La mossa del giudice è un brutto colpo per i suoi sostenitori siciliani, che lo interpretano come un “cambio di rotta” nell’azione di contrasto alla malavita organizzata. A dirsi stupito della decisione è il “Coordinamento Antimafia” dell’ispettore di Polizia Carmine Mancuso, tra le associazioni di punta della società civile dell’isola; è l’epoca della “Primavera di Palermo”, un variegato movimento che ha la sua nemesi proprio in Salvo Lima. Falcone ha “bruciato” Pellegritti, il pentito che, finalmente, stava accusando Lima. Circolano strane voci, che Falcone stia cercando “sponde politiche” per fare un salto di qualità, che lui stesso abbia organizzato il fallito attentato dell’Addaura per farsi pubblicità.  

Fino a quel 17 maggio del 1990. Anche allora milioni di italiani sono incollati alla tv a guardare la puntata di “Samarcanda” – il programma di Rai Tre condotto da Michele Santoro. Si parla di mafia e prende la parola il sindaco di Palermo Leoluca Orlando: “Io sono convinto, e me ne assumo tutte le responsabilità, che dentro i cassetti del Palazzo di Giustizia ce n’è abbastanza per fare chiarezza su questi delitti”. Il delitto è quello Mattarella e i “cassetti” sono quelli dell’ufficio di Falcone. Il giudice ha sconfessato Pellegritti per insabbiare l’inchiesta su Lima?

Il sindaco di Palermo, oggi in prima fila nell’Italia dei Valori, sta combattendo una virulenta battaglia politica per sbarazzarsi dell’establishment democristiano dell’epoca pur avendo militato egli stesso nella Dc. Secondo Orlando, la mafia ha il volto delle istituzioni. “Cinismo politico”, così lo definisce Falcone. “Se il sindaco di Palermo sa qualcosa, faccia nomi e cognomi, citi i fatti, si assuma le responsabilità di quel che ha detto. Altrimenti taccia: non è lecito parlare in assenza degli interessati”.

Il 23 maggio del 1990, il quotidiano l’Unità rilancia, titolando “Pintacuda contro Falcone: fa’ tu i nomi”. Padre Pintacuda, uno degli ispiratori di Orlando, è un gesuita che teorizza “l’uso del sospetto come anticamera della verità”, un modello inquisitorio che non seduce menti più raffinate come quella investigatrice di Falcone. La scelta di accettare la proposta del ministro della giustizia Martelli – la direzione degli Affari Penali – a molti dei suoi ex fedelissimi appare una ulteriore conferma del “tradimento”. Il Pds, il Consiglio Superiore della Magistratura, l’Associazione Nazionale dei Magistrati, prendono le distanze. Scrive Sandro Viola su Repubblica: “Non si capisce come mai Falcone non abbandoni la magistratura. S’avverte l’eruzione di una vanità, di una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste dei guitti televisivi”.

“Questo è un modo di fare politica attraverso il sistema giudiziario”, dirà il giudice nel ’91, “Non si può investire nella cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, è l’anticamera del khomeinismo”. La Cassazione, intanto, gli ha dato ragione, confermando gli ergastoli del maxi-processo. E c’è un nuovo, vero pentito da seguire: Francesco Marino Mannoia, che sta “cantando” sulle cosche vincenti di Cosa Nostra. Nel marzo del ’92, Lima viene assassinato dalla mafia. Il 23 di maggio, Falcone muore nella Strage di Capaci.    

Repubblica definisce subito Antonio Di Pietro il “Falcone del Nord”, mentre per l’Unità: “I magistrati del pool di Milano considerano la strage di Capaci un avvertimento lanciato a quanti vogliono smascherare i signori di Tangentopoli”. E’ un lavacro collettivo sulle ceneri del giudice antimafia, con l’eccezione di Piero Sansonetti: “Negli ultimi mesi, e più di una volta, l’Unità ha criticato Giovanni Falcone per la sua nuova amicizia con i socialisti e per la sua scelta di lasciare Palermo… Abbiamo fatto prevalere il dubbio politico: forse non è più uno dei nostri. Forse è polemicamente ambiguo. Forse è il cavallo di Troia. E così abbiamo giudicato la sua scelta tattica una sorta di abbandono. Siamo stati faziosi”. E’ un implicito riconoscimento delle “scorciatoie giudiziarie” utili a conquistare un’egemonia politica.

“Le indagini hanno finalmente rilevato in maniera inequivocabile come sia stato in realtà Angelo Izzo la vera fonte e l’ispiratore delle false rivelazioni di Pellegritti”, scrive Falcone nel suo ultimo atto da procuratore aggiunto, prima di volare a Roma al ministero di grazie e giustizia. Così si chiude la storia di Lima e Mattarella, la "mascariata" di Giuseppe Pellegritti. Il vero burattinaio, ancora una volta, è stato lui, Angelo Izzo, il “nero” fuori di testa. Un criminale carismatico e un sovversivo, che però, in molti passaggi della sua lunga detenzione, è stato bravo a guadagnarsi benefici e sconti di pena con le sue dichiarazioni e mezzi pentimenti. Falcone è morto ucciso dalla mafia, mentre Izzo, con quegli occhi acquosi che sembrano volergli uscire dalle orbite, si è conquistato la semilibertà. Ha fatto in tempo a massacrare altre due donne, madre e figlia, prima di ritornare in carcere. Lo Stato italiano non ha bisogno di pentiti come questi, squallidi assassini.