Per aumentare i salari bisogna legarli alla performance dell’impresa

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Per aumentare i salari bisogna legarli alla performance dell’impresa

20 Maggio 2009

L’impietosa fotografia scattata dall’Ocse sul livello dei salari, con l’Italia relegata agli ultimi posti tra i trenta Paesi più sviluppati, mette governo e parti sociali di fronte a enormi responsabilità. Una revisione dei meccanismi distributivi della ricchezza oggi si impone come un’emergenza non solo per fare fronte all’attuale crisi economica, ma anche per dare prospettive durature di sviluppo al Paese e garanzie di benessere ai giovani che affrontano il futuro con sempre maggiori incertezze.

Le grandi speculazioni finanziarie degli ultimi tempi hanno prodotto forti disuguaglianze e hanno messo in crisi molti dogmi del sistema capitalistico. Bisogna quindi cambiare strada, individuando quei meccanismi capaci di coniugare produttività ed equa remunerazione del lavoro. C’è una strada maestra per raggiungere questo risultato: legare i salari alla performance dell’impresa, attraverso forme di economia partecipativa di cui si discute da anni ma che faticano a prendere piede in modo efficiente e sistematico. A rilanciare la proposta è stato il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi che ha ricordato come in Parlamento sia stato presentato un testo dalla maggioranza d’accordo con il governo. Un provvedimento, ha ricordato Sacconi, che una volta integrato con le proposte presentate dal senatore Tiziano Treu (Pd) potrebbe presto portare a una legge bipartisan.

L’idea che sta alla base di questa proposta consiste nello stabilire che la partecipazione al rischio d’impresa non possa essere vista solo sotto il profilo negativo. Non si possono chiedere sacrifici ai lavoratori in tempi di vacche magre (attraverso prepensionamenti, cassa integrazione, mobilità e, nella migliore delle ipotesi, stipendi ridotti) mentre quando le cose vanno bene nessuno mette in pratica un valido meccanismo di distribuzione dei benefici. Sul salario dei lavoratori deve riflettersi anche la parte positiva del rischio d’impresa. In altre parole: quando l’azienda fa utili deve aumentare in modo significativo le retribuzioni. Solo così si possono creare sempre nuovi stimoli che consentano a tutti i lavoratori di remare con forza a favore dell’impresa, ma il loro impegno va riconosciuto in modo equo in busta paga. Questo meccanismo già viene messo in pratica in alcune piccole imprese che per loro natura sono più portate a una gestione partecipativa. Invece le grandi aziende, anche quando producono utili a sei zeri, spesso gratificano impiegati e operai solo con qualche centinaio di euro di premio produzione una tantum.

L’idea della partecipazione agli utili, però, non è priva di insidie. Partiamo dal nuovo modello contrattuale, siglato dal governo con i sindacati ad eccezione della Cgil. La riforma contiene diverse opportunità, come la detassazione del salario variabile che dovrebbe essere legato alla produttività. Ma c’è anche il rischio che, attraverso deroghe al contratto nazionale, il livello base della retribuzione sia trascinata al ribasso. Questo è un fenomeno che deve essere evitato e a confermarlo sono proprio i dati dell’Ocse: gli italiani sono i lavoratori meno pagati in Europa occidentale (solo i portoghesi stanno peggio), un single italiano intasca 21.374 dollari netti l’anno, circa 1.200 euro per tredici mensilità e si colloca al ventitreesimo posto della classifica. Se si considera il lordo (cioè quanto pagano le aziende) le cose cambiano poco, visto che l’Italia si posiziona solo un gradino più in alto, al ventiduesimo posto. Un single spagnolo può spendere 24.632 dollari, quello francese 26 mila e quello greco 26.512. Sono i coreani i single più ricchi, seguiti dagli inglesi. Discorso analogo se si considera una coppia italiana monoreddito con due figli (25.564 dollari) e una coppia con due figli bireddito (39.072).

È importante ricordare che la classifica è calcolata a parità di potere d’acquisto, quindi i redditi non sono nominali ma rappresentano quanto effettivamente ci si può comprare. Un’altra considerazione da sottolineare è che il cuneo fiscale, cioè la differenza fra il costo di un lavoratore per l’azienda e quanto in realtà incassa quel lavoratore, non incide in modo determinante sulla posizione dell’Italia nella classifica dell’Ocse. Ciò significa che gli stipendi lordi pagati dalle aziende sono troppo bassi, a prescindere dal peso di tasse e contributi sul lavoro (in Italia è al 46%, inferiore comunque a quello di Belgio, Ungheria, Germania, Francia e Austria).

Secondo il ministro Sacconi la colpa dei bassi salari italiani è del sistema contrattuale introdotto nel 1993, un modello fortemente centralizzato che ha dato luogo a bassi salari e bassa produttività. Per risalire la china, quindi, non serve scardinare il sistema di tutele dei lavoratori, ma favorire una contrattazione di secondo livello più attenta alla condivisione degli utili. Su questo punto un ruolo cruciale spetta ai sindacati, soprattutto a quelli che hanno accettato la sfida della riforma siglata nelle scorse settimane: le modalità di partecipazione dei lavoratori alle sorti dell’impresa dovrà essere messa nero su bianco nei contratti integrativi. Ridare fiato alle buste paga significa dare un reale impulso ai consumi, rimettere in moto l’economia con evidenti vantaggi per tutti, soprattutto per le imprese che adesso faticano a vendere i loro prodotti.