Per avere più democrazia (interna), basterebbe attuare l’art. 49 Cost.
27 Giugno 2012
In queste ore sta tornando alla ribalta, come avviene ciclicamente da 70 anni, l’appello per l’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione in risposta alla crisi dei partiti. Oggi tocca ai Formattatori, guidati dal sindaco di Pavia Alessandro Cattaneo, ma pochi giorni prima era l’Italia dei Valori ad indicarla come la via maestra, preceduto dal Partito Democratico. A Febbraio toccava invece alla seconda carica dello Stato, il Presidente del Senato Renato Schifani, dare il suo endorsement all’iniziativa. In realtà sono poche le parti politiche che, nella loro storia, non abbiano invocato, almeno una volta l’attuazione di questo articolo spesso noto ai costituzionalisti e purtroppo ignoto ai cittadini, che sembra talvolta avere la stessa carica utopistica di alcune prescrizioni in materia economica della nostra suprema Carta o sembra, scontrandosi con la dura realtà, fatto della stessa materia di cui sono fatti i sogni.
Per parte mia non sono un costituzionalista e quindi non farò il torto di spacciarmi come tale, anche perché non voglio annoiare nessuno con dotte disquisizioni nate da un copia incolla dei Quaderni costituzionali o attingendo a man bassa dalla “vecchia” copia del Mortati che tengo sul primo scaffale per rinvangare i bei tempi andati e fingermi ancora uno studente. Vorrei invece tentare di fare qualche spartana e assai poco sofisticata riflessione sulla questione, pronto a incrociare le lame per rivendicare il mio diritto costituzionale a parlare di Costituzione anche senza utilizzare un linguaggio giuridico.
Partiamo dal testo dell’art. 49: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.” Ad una prima e superficiale lettura sembra una norma di scontata applicazione, almeno nell’Italia del 2012. C’è, tuttavia, un particolare: quelle due parole, “metodo democratico”. Esse non si riferiscono al Parlamento ma ai partiti. Questo presuppone, di conseguenza, che intervenga una legge per precisare cosa la Costituzione con quel suo riferimento al metodo democratico. La realtà, infatti, è che mentre una semplice associazione deve garantire dei standard minimi di democraticità interna, conferendo all’assemblea dei soci il potere di determinare le sue cariche, nei partiti si può fare di tutto e di più. Si può votare per acclamazione; celebrare, come nel caso di Alleanza Nazionale, 3 congressi in 14 anni (uno dei quali fondativo e un altro di scioglimento); fare delle primarie a candidato quasi-unico, come quelle del centrosinistra del 2006. E’ possibile inventare procedure di voto in congresso tali da vanificare l’ostilità di minoranze e persino di maggioranze; far valere di più il voto degli eletti; consentire la scelta democratica solo nei livelli di governo locale lasciando al vertice la possibilità di nominare i regionali. Si può eleggere un Presidente a vita. E magari, dopo, si può anche dire, a chi obietta: "Io sono stato eletto da un Congresso"! Vent’anni fa.
Con il sentimento di indignazione che sta travolgendo i politici non è strano che ora le richieste stiano diventando sempre più stringenti ed esigenti. La realtà è che tramite l’applicazione dell’articolo 49 si risolverebbero un gran numero di problemi dando una forma organica e coerente con le strutture a modalità di finanziamento, democrazia interna, codice etico e limite ai mandati. Una legge sui partiti non dovrebbe essere troppo stringente ma dovrebbe prescrivere precisi requisiti cui si devono attenere i partiti per svolgere la loro attività. Uno di questi è quello di celebrare congressi entro precise scadenze o tenere elezioni primarie per la scelta dei candidati, regolamentandole con precise norme statali. Prescrivere una decurtazione automatica in caso di errato utilizzo del finanziamento ai partiti. Mettere un limite ai mandati consecutivi in cui sia possibile candidarsi in una stessa assemblea elettiva. Prevedere procedure di scioglimento in caso di abusi che turbino seriamente l’ordine democratico o che promuovano l’uso della violenza.
Occorre, insomma, una legge dalle maglie larghe che fissi con estrema chiarezza alcuni paletti entro i quali occorre muoversi. E non serve un politologo per concludere che, se la democrazia si affermasse all’interno dei partiti, si avrebbe una maggiore libertà nella scelta di qualsiasi tipo di legge elettorale.
Utopia. Forse, ma persino la Russia a Marzo ha approvato una legge sui partiti. La Spagna ha normato la questione in una legge organica. La Francia e la Germania hanno un sistema di regole di grande respiro in materia, specie relativamente alla parte del finanziamento. È ovvio che un partito con procedure democratiche deve essere un partito vivo, con sedi di dibattito e di confronto. Nel nostro Paese, invece, dopo Tangentopoli, si è andato affermando il terrore del partito pesante, il partito della burocrazia interna e delle tessere. E ovviamente, prendendo sempre più l’aspetto di partito di notabili, esso si è attrezzato per conseguire i risultati per cui questa forma di aggregazione è funzionale: supportare i leader. Perché poi i partiti dovrebbero temere dei partiti strutturati? Ci si riferisce spesso alla prima Repubblica e al sistema di corruzione legato ai partiti maggiori, l’occupazione della cosa pubblica, l’esplosione del debito come conseguenza di partiti con grandi esigenze e di un forte numero di supporter. Ma la condizione attuale è davvero tanto diversa, avendo partiti senza tessere?
La realtà: è la qualità e l’applicabilità delle norme che limitano fenomeni di corruzione. E tanto più è difficile e compromissoria una legge e tanto più ci sono margini per aggirarla. Se poi non esiste diventa ancora tutto più facile. Ricordo, però, che Rocco Buttiglione, in un’intervista, ebbe a rimpiangere il modello tedesco di partito, le sue modalità di finanziamento, l’affiancamento di strutture autorevoli come le Fondazioni in cui fosse possibile continuare a far politica ed apportare il proprio contributo anche una volta pensionati. Mi disse: “forse, in quel caso, sapendo che il partito può essere una struttura che non è composta solo dagli eletti, ma che trova il suo spazio per i militanti, gli intellettuali, gli ex eletti, sarebbe meno complicato per i professionisti mollare il proprio posto”. Ancora oggi non riesco a dargli torto.