Per Bush l’opzione militare in Iraq è ancora quella giusta
26 Luglio 2007
“Quasi sei anni dopo
gli attacchi dell’Undici Settembre l’America rimane una nazione in guerra. la
rete terrorista che ci ha attaccato quel giorno è determinata a colpire ancora
la nostra nazione, e noi dobbiamo fare tutto ciò che è in nostro potere per fermarli”.
Queste le parole del Presidente Bush in visita martedì alla base aerea di
Charleston nella Carolina del Sud.
Il “Comandante in Capo” ha
poi detto che al-Qaeda in Iraq è guidata personaggi fedeli ad Osama Bin Laden, collegando
di fatto l’organizzazione terrorista agli attacchi dell’Undici Settembre.
Alcuni esperti hanno criticato il presidente su questo punto, accusandolo di
semplificare troppo la questione. Bush ha poi continuato dicendo, “La
lezione più importante dagli attacchi dell’Undici Settembre sta nel fatto che
il miglior modo di proteggere l’America è andare all’attacco, combattere i
nemici oltreoceano così da non doverli affrontare in patria. E questo è
esattamente ciò che i nostri uomini e le nostre donne in uniforme stanno
facendo in tutto il mondo”.
Il presidente ha parlato di
fronte a circa trecento soldati appartenenti alla “437esima Airlift Wing”
affermando anche: “Ecco il tema principale: al-Qaeda in Iraq è guidata da
leader stranieri fedeli ad Osama Bin Laden. E come Bin Laden, anche loro sono
assassini dal sangue freddo che uccidono innocenti per perseguire gli
obbiettivi politici di al-Qaeda…alla fine però, nonostante l’evidenza,
qualcuno vi dirà che al-Qaeda in Iraq non è veramente al-Qaeda e che non
rappresenta un reale minaccia per l’America…è come assistere alla scena di un
uomo che entra in una banca con il volto coperto e una pistola e dire che
probabilmente quell’uomo è lì solo per incassare un assegno”.
Alla fine del suo “speech”,
durato circa 28 minuti, Bush si è appellato alla nazione perché capisca che si
deve dare al Generale Petraeus e alle sue truppe il tempo di mettere le cose a
posto e di sconfiggere al-Qaeda in Iraq per il bene di tutti”.
%0D
Il discorso ha suscitato
reazioni opposte da parte degli esperti americani di sicurezza nazionale e di
terrorismo ma, in generale, hanno prevalso le critiche. Alcuni hanno fatto
notare come le parole di Bush fossero caute e morigerate, indicando nel suo
discorso una certa vena di chiarezza in merito alla situazione della minaccia
terrorista. Altri come, Robert Grenier- ex-capo del reparto anti-terrorismo
alla Cia- hanno giudicato il briefing di martedì troppo semplicistico, “Credo
che quello che sta dicendo il Presidente sia in un certo senso fondamentalmente
fuorviante”, ha argomentato Grenier, “Se intende dire che l’invasione dell’Iraq
da parte americana non ha creato più jihadisti dediti ad uccidere gli americani
e che l’Iraq ha funzionato come un magnete e che questi terroristi sarebbero stati
attratti verso qualche altro posto, ciò è totalmente ingenuo da parte sua”, ha
chiosato l’ex-funzionario della Cia.
Anche l’ex-direttore della Central Intelligence
Agency, John McLaughlin si si è schierato su posizioni simili a quelle del suo
collega Grenier. McLaughlin ha parlato di una situazione molto più complicata
che include una guerra civile, tensioni di tipo nazionalista e vari altri
aspetti, troppo complicati per essere riassunti in un discorso tipo quello di
Bush. “Non ci sono dubbi sul fatto che al-Qaeda in Iraq abbia un ruolo
importante in questo conflitto, ma descriverlo unicamente in questi termini è
come descrivere una partita a dama quando quello con cui realmente abbiamo a
che fare è una partita a scacchi”, ha detto McLaughlin.
Secondo la CNN molte delle
critiche ricevute da Bush nascondono la volontà dei democratici di ritirare le
truppe dall’Iraq per impiegarle sul teatro di guerra afghano. La parola
“al-Qaeda” è stata pronunciata 93 volte in circa mezz’ora, questo deve aver convinto
la stampa americana in merito alla ferrea volontà di rimanere in Iraq dello
stesso presidente. La strategia sarebbe semplice: enfatizzare il ruolo
dell’organizzazione terrorista di Bin Laden nel causare stragi e violenza in
Iraq, minimizzando quello delle divisioni tra sunniti e sciiti.
In realtà il discorso di
Bush andrebbe letto in connessione con il nuovo piano per la “sicurezza
sostenibile”, che è stato recentemente redatto da militari americani d’alto
rango e approvato dall’ambasciatore Usa in Iraq. Il piano, conosciuto col nome
di “Joint Campaign Plan”, prevede un ritiro delle truppe Usa entro il la fine
del 2009 e rappresenta nero su bianco la nuova strategia presentata dal
Presidente Bush a Gennaio, che prevedeva un cambio di rotta non indifferente:
invece di puntare sull’addestramento dell’esercito iracheno infatti, si decise
allora di aumentare il numero di soldati Usa in Iraq in modo da garantire
maggior sicurezza alla gente del luogo.
Pensato dal Generale David
H. Petraeus, dall’ambasciatore Ryan C. Crocker, dal Segretario della Difesa
Robert M. Gates e dal capo del Comando Militare Centrale, William J. Fallon, il
piano dovrebbe essere presentato ufficialmente nel corso della prossima
settimana, stando a quanto riportato dalNew York Times, che ha potuto ascoltare
una persona informata sui fatti.
Il punto centrale del “Joint
Campaign Plan”, sempre secondo il NYT, sta nel fatto che gli Stati Uniti
d’America riconoscono di non essere in grado di trovare una soluzione militare
al problema iracheno ma che, allo stesso tempo, le condizioni necessarie a
favorire un processo di riconciliazione politica sarebbero raggiungibili
solamente tramite l’uso della forza.
Alla realizzazione del nuovo
piano hanno partecipato i massimi esperti del settore attualmente disponibili
oggi negli States: gente come il Colonnello McMaster, che era il comandante
dell’operazione “Clear, Hold and Build” (ripulisci, difendi e costruisci) che
ha permesso di riportare ad uno stato di semi-normalità la zona di Tal-Afar,
oppure il Colonnello John R. Martin, che insegna all’Army War College (il
Collegio di Guerra dell’Esercito) e che era un compagno di Petraeus
all’Accademia di West Point (ritenuta all’unanimità la migliore accademia
militare statunitense e quindi una delle migliori al mondo). Anche esperti non
militari come Stephen D. Biddle, del Council on Foreign Relations, hanno preso
parte alla stesura del “Joint Campaign Plan”.
Di pari passo con la
strategia militare, inoltre, si è attivata la diplomazia Usa, come dimostra il
nuovo incontro tra i delegati statunitensi e quelli iraniani che si è tenuto
ieri nella capitale irachena. Il focus della riunione di giovedì, come quella
storica del maggio scorso, era la sicurezza interna all’Iraq, ma, secondo
alcuni critici, i vertici militari statunitensi sarebbero scettici in merito
all’efficacia effettiva di questi meeting, soprattutto a causa della reticenza
e della scarsa affidabilità dei diplomatici iraniani.
A Washington sono in pochi a
credere nella buona fede del governo Ahmadinejad e molti a ritenere questo
incontro come una concessione fatta dall’attuale amministrazione agli esperti
che si sono occupati di redarre l’oramai famoso documento bi-partisan
“Baker-Hamilton”, il quale invocava, come soluzione al problema iracheno,
trattative diplomatiche con il governo di Teheran.