Per Cardini anche Boccaccio diventa no global

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Per Cardini anche Boccaccio diventa no global

02 Dicembre 2007

Franco Cardini è storico, romanziere, elzevirista, finalista e vincitore di ogni premio possibile e immaginabile, insignito da R. Sigismondo d’Asburgo Lorena, Granduca di Toscana, del titolo di Cavaliere dell’Ordine di San Giuseppe, nonché dal Sovrano Militare Ordine di Malta del titolo di Commendatore dell’Ordine al Merito melitense (basta consultare il suo curriculum per comprendere le ragioni della nostra mai sufficiente genuflessione intellettuale), arriva in libreria con un’altra impareggiabile opera, “Le cento novelle contro la morte. Giovanni Boccaccio e la rifondazione cavalleresca del mondo” (Salerno, 2007, pagg. 160).

La tesi è che Giovanni Boccaccio nella sua più grande opera, il Decameron, non abbia per nulla voluto rappresentare l’epopea mercantile. Non abbia voluto  celebrare il fiorire della società borghese fiorentina, bensì se ne rammarichi, rimpiangendo il tempo cortese e cavalleresco. L’autore, partendo da un’analisi storiografica della Morte Nera, vede in essa la metafora non della contrapposizione del bello e delle lettere, del linguaggio alla morte, ma vi vede una punizione divina fine a se stessa che doveva simboleggiare il lavacro necessario per la corrotta Firenze.

“La condanna e il superamento” della “società borghese fiorentina e dei suoi valori alla luce di un pieno recupero del messaggio cortese cavalleresco”. Vengono estrapolate in chiave anti-liberista, citazioni sul disprezzo del denaro e delle ricchezza materiali per “condurre” il lettore alla scoperta di come Boccaccio non anticipi per nulla, come pareva a tutta la critica prima di Cardini, la rinascita umanista, il Rinascimento stesso e quindi la civiltà moderna, borghese e occidentale, che l’autore manifestamente disprezza (“borghesucci piccoli piccoli”), no Boccaccio era in realtà un anti-moderno alla Evola.

 Il dubbio che sorge e che resta pure di fronte a cotanta erudizione, facendo sì che la tesi risulti vagamente strumentale e ideologica, è di come sia stato possibile (e qui c’è da meravigliarsi) argomentare un’interpretazione su di un testo fondante del trecento letterario italiano applicando categorie difficilmente non tacciabili per essere figlie di un tardo marxismo da terza o quarta ondata.

Peraltro il Decameron, manifestamente opera teologico-letteraria, è per dichiarazione espressa del Boccaccio, prodotta secondo un linguaggio ipertestuale, capace di spalancare mondi di significato differenti agli occhi di chi possiede la pazienza (e la tecnica) per leggerlo.

 “Quali libri, quali parole, quali lettere son più sante, più degne, più riverende, che quelle della divina Scrittura? E sì sono egli stati assai che, quelle perversamente intendendo, sé e altrui a perdizione hanno tratto. Ciascuna cosa in sé medesima è buona ad alcuna cosa, e male adoperata può essere nociva di molte; e così dico delle mie novelle.”

Ma se il rischio di “perversamente intendere” diventa altissimo leggendo l’opera boccaccesca, non può non trovarsi ai limiti del paradossale il pensare possibile che il distacco narrativo e di senso che si vuole rendere nel testo, tra la morte e il momento di pace di cui si rendono protagonisti i giovani – in un trionfo anche di erotismo, di vita, di volontà di superamento e di “paroletta più liberale” – possa finire per trasformarsi nell’esaltazione proprio di quel mondo che nella narrazione essi volevano continuamente dileggiare.  

Ma Cardini è noto per le sue posizioni oltranziste, che, come dire, condizionano le letture erudite. Ne “Le fatiche della libertà” (Fazi, 2007, pagg. 258), ad esempio, lo storico svela il “totalitarismo liberistico” d’Occidente ed introduce con una originalità senza pari alla tesi secondo cui gli Stati Uniti sono un “comitato d’affari”, mera espressione della “volontà di potenza” delle multinazionali (senza considerare quel Bush  poi). Il paese a stelle e strisce inoltre, è portatore nel mondo di una politica diplomatico-militare “che ricorda abbastanza da vicino Hermann Goering”.

Nello stesso libro ci viene spiegato come Ahmadinejad avrebbe invece “un programma sociale interessante” che va alla grande in patria, ma nessuno ha il coraggio di dirlo (si segnalano anche “L’invenzione dell’Occidente” e “Europa e Islam. Storia di un malinteso”, come le sue posizioni nella polemica su “La Pasqua di sangue” di Ariel Toaff). Uno strano rapporto col mondo occidentale, e in particolare con quello giudiaico, che, a bene vedere,  lascia molto da pensare.