Per i partiti nuovi il problema non sono le tessere, sono i soldi

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Per i partiti nuovi il problema non sono le tessere, sono i soldi

30 Ottobre 2007

Anche il nuovo segretario del Partito Democratico,
nella sua relazione di Milano, ha glissato su uno degli aspetti che possono connotare
il nuovo che si intenderebbe costruire in politica: il rapporto tra la politica
e il denaro necessario per realizzarla. Un rapporto decisivo e ineludibile,
solo che non si voglia perpetuare una forma, un modello di partito che
appartiene agli schemi logori del passato.

Decenni di finanziamenti pubblici
per la politica e per i partiti, determinati da leggi come il finanziamento
pubblico ai partiti (riconvertita, contro la volontà dei cittadini che si erano
espressi contro a larga maggioranza durante un referendum del ‘93, in legge sui
rimborsi elettorali), hanno prodotto forme di clientelismo, di cor­ruzione, di
parassitismo burocratico e statalizzazione della politica, che sono sotto gli
occhi e alle orecchie di tutti.

Le migliaia di miliardi di
vecchie lire che i partiti introitano da parte dello Stato, consentono esse
stesse – insieme al sistema elettorale che impedisce al singolo di decidere
liberamente la rappresentanza in Parlamento, fatto gravissimo e senza
precedenti nella storia repubblicana – la proliferazione dei partiti, che
accedono al finanziamento pubblico anche se hanno solo un eletto e la
moltiplicazione delle prebende per i mezzi d’informazione di partito attraverso
la legge sull’editoria.

Un partito nuovo, se vuole essere
tale, non può non porsi questo problema. E’ un’ipocrisia risolverlo nel
dibattito “tessere sì tessere no”. Senza
aggiungere un parola vera sul ruolo che ha il denaro nella politica e
sull’entità enorme di denaro pubblico di cui i partiti, associazioni private
non riconosciute, possono disporre. L’ipocrisia deriva dal fatto che tutti
sanno che l’introito derivante ai partiti dalle contribuzioni degli iscritti
costituisce una parte infinitesimale del denaro che i partiti usano proveniente
dalle casse dello Stato. Nel sistema attuale, i partiti non hanno bisogno del
denaro proveniente dalle elargizioni libere dei cittadini, ricevendo già quote
enormi di denaro pubblico.

Il finanziamento alla politica
dovrebbe essere, concepito, interpretato e realizzato come problema
dell’organizzazione dello Stato e del sistema politico, considerando la sua centralità
per il concetto stesso di democrazia.

Se si intende fare una nuova
politica, è evidente che si deve creare un nuovo rapporto tra l’iniziativa
politica, che si deve svolgere per obiettivi, e il denaro necessario per
realizzare questi obiettivi. I progetti di attività dovrebbero essere autofinanziati e dovrebbero vivere con
il concorso delle risorse umane e delle risorse economiche necessarie, che vanno
quantificate, pre-determinate e legate indissolubilmente al raggiungimento
dell’obiettivo politico.

Una rivoluzione vera sarebbe
quella di battersi contro le leggi attuali che consentono ai partiti di
appropriarsi di denaro pubblico e di reperire dall’autofinanziamento,
democratico, libero, diretto e trasparente, derivante dalla scelta di privati cittadini,
imprese, gruppi, associazioni, le risorse necessarie all’azione politica.

Perché il Partito Democratico, se
vuole affrontare seriamente questo tema, non promuove un’iniziativa legislativa
con la quale i partiti rinunciano ai
finanziamenti che possano derivare, direttamente o indirettamente, dal danaro
dello Stato?

Perché il Partito Democratico non
proclama che una delle ragioni fondanti di un nuovo contratto di rappresentanza
possa essere quello di affidarsi, senza infingimenti, al modello americano di
fund raising per la politica, che consentirebbe da un lato il ri-concepimento
del rapporto tra partiti-cittadini-Stato e dall’altro la valorizzazione vera dell’adesione
a delle idee?

Un’iniziativa
politica di questa natura, costringerebbe l’intero sistema dei partiti a
ripensare a se stesso in modo serio, costruttivo, moderno, recuperando il senso
e il ruolo che la stessa Costituzione repubblicana assegna ai partiti, quando
parla di partito come “strumento”. Se
il Partito è tale, deve muoversi e vivere nel mercato della politica, e quindi
nel mercato delle idee, come si muove un’impresa nel mercato della produzione.
Deve affrontare il rischio d’impresa: vendere le sue idee, promuovendo
l’autofinanziamento, rinunciando contestualmente a tutto quel che deriva dalla
sicurezza di avere uno Stato che paga quelle idee.