
Per i veterani gli Usa devono superare la sindrome del Vietnam

13 Novembre 2007
Jim è un reduce dell’Iraq. Perseguitato dagli incubi, mostra
allarmanti segni di squilibrio, una dissociazione schizofrenica che da vecchio
compagno di sbronze lo trasforma in uno spietato serial killer. Si droga, beve,
ruba, gli piace fare il pistolero, è un razzista come pochi. Finirà per
ammazzare la sua chica, una dolce
ragazza messicana che sognava di sposarlo. David Ayer, il regista di Harsh Times (2007), sembra spiegare il
comportamento antisociale del suo personaggio con le terribili esperienze
accumulate durante la guerra in Iraq. Da una ricerca condotta dall’Università
della California emergono cifre da capogiro: su un campione di circa centomila
reduci rientrati dall’Afghanistan e dall’Iraq, il 30% mostra di avere dei
problemi mentali, il 13% è affetto da stress post-traumatico, a cui si
aggiungono stati di ansia, abuso di alcol e droghe e numerosi casi di violenze
domestiche. Ma c’è davvero un legame diretto tra la violenza rabbiosa di Jim,
le sue gesta riprovevoli, e il fatto di aver combattuto in Iraq?
La dottoressa Sally Satel lavora come psichiatra a
Washington ed è convinta che non va fatta di ogni erba un fascio. Certo, la
salute dei veterani deve restare al primo posto nell’agenda politica. Ci
mancherebbe altro. Il Congresso dovrà dimostrare non solo a parole ma con i
fatti di avere a cuore il destino di chi è tornato a casa. Detto questo, la
dottoressa prova a fare un ragionamento un po’ controcorrente rispetto alla
retorica giornalistica e cinematografica che appiattisce ogni differenza con la
scusa della gratitudine verso “i nostri ragazzi in uniforme”, compreso ‘discolpare’
gentaccia come Jim aggiungendo alla parola assassino l’aggettivo poverino. Insomma,
se vogliamo rispettare le promesse fatte ai veterani è necessario distinguere
tra i vari casi e trovare nuove soluzioni.
Nel 2005, Satel ha scritto un libro intitolato “Una nazione
sotto terapia” in cui se la prendeva con la medicina politicamente corretta che
pensa di rimediare ai mali della società americana con una generalizzata equità
di trattamenti sanitari. Incorporare la giustizia sociale nella missione della
medicina è solo un modo per distrarre risorse dalla lotta contro il disagio individuale. “L’industria del trauma”
sembra offrire rimedi per ogni aspetto della nostra vita quotidiana, in classe,
al lavoro, in chiesa, nei tribunali, nei media, ovunque viene offerto “aiuto”
nella presunzione che i cittadini non possano farne a meno. Questo terapismo
onnipresente colpisce anche i militari, amplificando la casistica
post-traumatica oltre ogni più funerea previsione. Senza dubbio chi è afflitto
da questi disagi va protetto, seguito, e ha diritto a tutta la riconoscenza che
la nazione può offrire. Ci sono soldati tornati da Baghdad o Kabul che
manifestano severe patologie psichiatriche e dobbiamo fare tutto ciò che in
nostro potere per aiutarli. Per riuscirci è necessario andare oltre la
“Sindrome del Vietnam” e fare piazza pulita delle immagini sovraimpresse alla Platoon.
Quello che la dottoressa Satel vuole rimettere in
discussione è il dogma del veterano rappresentato come una bomba a tempo,
sempre sul punto di esplodere, un po’ come succede a Jim. Questa immagine
cristallizzata risale agli studi condotti nei primi anni settanta dal gruppo di
psichiatri riuniti attorno al professor Robert Jay Lifton, che introdusse il
concetto di “stress post-traumatico” applicato ai veterani del Vietnam. Lifton
e i suoi erano sempre stati sinceramente contro la guerra. Alienazione,
depressione, incubi e insonnia, divennero le prove di cui andava in cerca il
movimento pacifista per mostrare che combattere distrugge la mente a
annichilisce il cuore. Insomma, se è vero che i veterani soffrono di disordini
post-traumatici, la sindrome del Vietnam è stata anche una diagnosi utilizzata
per fini politici.
Dal 1988 al 1992, Satel è stata psichiatra presso il West Haven Veterans Affairs Medical Center
del Connecticut, lavorando con i reduci del Vietnam affetti da stress
post-traumatico. Racconta che le intenzioni del suo staff erano ottime ma la
filosofia sottesa a quel trattamento psichiatrico fu altrettanto fuorviante. I
reduci venivano divisi in gruppi e ospedalizzati per lunghi mesi. Gran parte
della degenza era finalizzata a far rivivere le terribili esperienze vissute al
fronte, grazie alla terapia di gruppo, alla terapia individuale, e mettiamoci
anche l’art therapy. “Queste pratiche
strappavano i reduci dalla loro comunità e dalle loro famiglie”, e invece di favorire
il loro reinserimento nella società li condannavano a una eterna regressione.
Il risultato era di enfatizzare anche il più piccolo problema della vita
quotidiana, come le difficoltà familiari e la ricerca di un lavoro,
trasformandolo in una diretta conseguenza della guerra.
Regressione,
atrofia, esclusione sociale, sono i pessimi risultati del vecchio trattamento
psichiatrico, quello che contribuisce a creare la “identità” del reduce, un
ruolo da cui diventa impossibile sottrarsi. La dottoressa invita a
“interpretare” lo stato psicologico dei veterani, a non confondere la
depressione, la sonnolenza, la distrazione, l’ostilità, con psicopatologie più
gravi, che pure ci sono e non vanno sottovalutate. Inutile perdere tempo,
l’unica riabilitazione possibile è quella che aggredisce subito il disagio psichico e favorisce il ritorno a casa, fuori
dall’ospedale psichiatrico, tra le braccia di parenti, familiari, amici. I
reduci devono sentire che la società apprezza il loro sacrificio, che hanno almeno
una possibilità di trovare lavoro, che ci sarà un gruppo di discussione pronto
ad ascoltarli, dove sfogare la troppa birra e le troppe canne consumate prima
della battaglia. La comunità americana, oggi, sembra molto più disposta a
riaccogliere chi è stato al fronte a differenza di quello che accadde dopo il
Vietnam.
Il
miraggio dei benefits previsti dallo
stato per i reduci in molti casi rischia di peggiorare la situazione. Parliamo
di qualche migliaio di dollari al mese, detassati. Oggi gli Stati Uniti
spendono circa 4,3 bilioni di dollari per i veterani, in prevalenza reduci del
Vietnam. Ma gli indennizzi possono diventare facilmente un’altra catena
destinata a perpetuare la schiavitù della disabilità psichica. Satel è convinta
che il lavoro sia la migliore alternativa ai risarcimenti, molto meglio che
prendere il Prozac. Senza dimenticare i casi di pazienti che mentono sapendo di
farlo, come hanno dimostrato gli studi del professor Loren Pankratz, psicologo
del Veterans Administration Medical
Center dell’Oregon. Insomma, un pizzico di scetticismo da parte degli
addetti ai lavori non guasterebbe.
E’
un discorso molto delicato, e per le sue idee la dottoressa è stata attaccata
dai familiari, dalle associazioni dei veterani, da piccoli e grandi quotidiani liberal. L’hanno accusata di essere
cinica e spietata, di non avere rispetto per i veterani. C’è gente che si è
suicidata per quello che ha visto in Iraq. Eppure dubitare fa rima con indagare
e forse servirebbe a risolvere qualche dilemma angoscioso. Si può distinguere,
per esempio, tra i disturbi che emergono qualche giorno (o mese) dopo aver
vissuto il trauma e quelli che invece si manifestano dopo anni e anni? Nel
primo caso ci sono delle evidenze scientifiche, com’è dimostrato dai casi di
pazienti scampati all’11 Settembre o alle bombe di Oklahoma City. Il trauma
c’è, si sente ancora l’odore della polvere e l’eco delle urla di chi non ce
l’ha fatta. Nel secondo caso invece non ci sono studi epidemiologici che
dimostrino la persistenza sotterranea di un trauma destinato a riemergere in
modo inaspettato a distanza di anni. La letteratura clinica sui veterani della
Prima e della Seconda Guerra mondiale indica che i disordini psichici di solito
apparivano subito dopo aver prestato servizio, mentre nei decenni successivi i
reduci vivevano un’esistenza tutto sommato produttiva e tranquilla (ovviamente
parliamo di disabili psichici, gli arti fantasma sono un altro paio di maniche).
In America le cose cambiarono con la guerra in Vietnam. E’ possibile che da allora
siano stati medicalizzati pazienti che non erano traumatizzati ma semplicemente
infelici, e che cercavano con tutte le forze di dare un significato
all’esperienza che avevano vissuto?
Che
ruolo gioca la memoria del reduce nella ricostruzione di esperienze così
scioccanti? Molto spesso tendiamo a ricostruire ciò che è accaduto deformandolo
in base alle sensazioni che proviamo nel presente, per esempio esageriamo il
peso di esperienze sfortunate se non ce la passiamo bene, o minimizziamo quelle
stesse esperienze se tutto gira per il verso giusto. Satel ricorda un’indagine
apparsa sull’American Journal of
Psychiatry nel 1997, che esaminava il caso di un gruppo di veterani che
avevano partecipato alla Prima Guerra del Golfo. Gli psichiatri incontrarono i soldati
un mese dopo il loro ritorno in patria e poi di nuovo dopo due anni. Nel 90%
dei casi, la memoria dei fatti traumatici cambiava dal primo al secondo
incontro. Il 70% dei pazienti dopo due anni ricordava esperienze di cui non
aveva fatto cenno subito dopo la guerra. La conclusione dello studio fu che i
veterani “tendono ad amplificare la loro memoria di eventi traumatici nel corso
del tempo”. Distorsioni che invitano alla cautela, come ha sottolineato Richard
McNally, psicologo della Harvard University, nel saggio Remembering Trauma, uscito nel 2003.
Serve
grande esperienza e devi essere disposta a vivere a fianco di pazienti ognuno
con la sua storia. Una volta un reduce più maldisposto di altri chiese alla
dottoressa: “Se non sei stata in Vietnam com’è possibile che puoi aiutarmi?”.
Giusto, mentre lui era a combattere i vietcong lei andava al liceo e magari
sentiva in cuffia White Rabbit. Ma in
fondo cosa le stava chiedendo davvero quel soldato? Di avere attenzione, e
fiducia. “Che ne sai cosa vuol dire strisciare in un tunnel dei rossi?”.
“Certamente non posso saperlo. Lo sai solo tu. Raccontami ogni cosa”. A volte
basta a rompere il ghiaccio per far uscire il paziente dal suo mondo privato
fatto di demoni e oscurità.