Per il Governo la crisi resta comunque in agguato

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Per il Governo la crisi resta comunque in agguato

17 Novembre 2007

Alla fine ha avuto ragione l’autonomista Oskar Peterlini che giorni fa incalzato sull’ipotesi di spallata al Senato durante i lavori della finanziaria e in merito alle eventuali lusinghe ricevute dal leader dell’opposizione, aveva liquidato l’argomento con un laconico “finché la borsa ce l’ha in mano Prodi il Governo sulla finanziaria non rischia niente”.

Sulla base di “sapienti” e tempestivi compromessi raggiunti sul far della notte e di emendamenti che da un giorno all’altro in evidente contraddizione con la stesura iniziale prevista dal governo venivano riscritti e dotati di opportune coperture finanziare, la scapestrata maggioranza di Palazzo Madama è riuscita a portare in porto l’approvazione del primo round di finanziaria.

Tuttavia, scongiurata l’ormai mitica spallata del 14 novembre l’attuale esecutivo, calendario e numeri alla mano, non può certo permettersi di tirare il classico sospiro di sollievo.

Questo per diversi ordini di motivi che lambiscono, intersecandosi, il piano politico e quello più strettamente collegato al timing parlamentare. 

In primo luogo la manovra al Senato ha comunque finito per mettere in chiara evidenza le ancestrali contraddizioni della maggioranza costretta a prendere tempo sulla parte riguardante il pubblico impiego e la stabilizzazione dei precari nella P.A, in cui l’accordo è stato più volte e compulsivamente mercanteggiato tra le sue diverse componenti. Da qui la netta presa di distanza del gruppo dei liberal di Dini che in sede di dichiarazione di voto ha esternato la propria dissociazione dalla maggioranza e la necessità di un nuovo quadro di governo.  

In secondo luogo, e proprio come immediata conseguenza di ciò, il fragile compromesso trovato su questo delicato ambito non fa che rinviare tutte le schermaglie e le rappresaglie intestine alla maggioranza all’esame del protocollo Welfare. Il ddl attuativo del protocollo infatti è già sotto il vaglio della Commissione Bilancio di Montecitorio dove in pochi giorni a firma della maggioranza sono stati presentati più di 200 emendamenti. Di questi la maggior parte provengono dall’area della sinistra massimalista e riguardano passaggi cruciali come la disciplina dei lavori usuranti all’interno dell’asset previdenziale, i contratti a termine e la cancellazione del lavoro a chiamata.

Tutte proposte di modifica rispetto al testo del protocollo che hanno provocato non poche frizioni in sede di Commissione tanto che senza neanche una parvenza di accordo di maggioranza gli emendamenti più problematici sono stati accantonati in attesa del primo passaggio in assemblea, dove prevedibilmente scoppierà la bagarre. La Camera infatti dovrà licenziare il provvedimento entro il 29 novembre per poi passarlo al Senato che sotto la pressione dello scatto dello scalone Maroni entro la fine dell’anno dovrà pronunciarsi in via definitiva. Delle due l’una. O il protocollo non viene emendato alla Camera magari con l’apposizione della fiducia e in questo caso sarebbe la sinistra radicale sotto il ricatto della piazza nonché delle note posizioni dei dissidenti a mettersi di traverso a Palazzo Madama, oppure, in caso di accoglimento di anche uno dei “miglioramenti” proposti dalla Cosa rossa, sarà lo stesso Dini al Senato a rovesciare il tavolo e ribaltare la maggioranza numerica.  

In entrambi gli scenari sul Welfare il sentiero di Prodi sembra davvero un vicolo chiuso con tanto di fermata di capolinea.

Anche perchè sempre nell’ accidentatissimo iter parlamentare dei prossimi giorni rientrano ancora  le improrogabili scadenze, con relative fibrillazioni annesse, legate al collegato fiscale e alla stessa legge finanziaria. Il primo da emanarsi entro il primo dicembre non appena arrivato alla Camera è stato accolto da una raffica di 500 emendamenti e se modificato, come probabile, dovrà tornare al Senato ed emanato entro il primo dicembre. Anche in caso di fiducia a Palazzo Madama scatterebbe la drammatica conta e questa volta senza l’appoggio dei diniani che la fiducia a Prodi l’anno appena cassata, per il premier sarebbe durissima spuntarla.

Stesso discorso dicasi per la manovra finanziaria che a Montecitorio dovrà transitare, a questo punto con la scelta obbligata della fiducia, entro il prossimo quindici dicembre, per poi tornare per l’approvazione finale al Senato con tutto ciò che alla strenua di quanto accaduto, e di quanto precedentemente ragionato, questo comporta. Infine per non farsi mancare niente il governo scenderà in trincea anche per la conversione del decreto legge sulla sicurezza, che come emerso nel virulento dibattito mezzo stampa delle scorse settimane registra già profonde spaccature all’interno della maggioranza. Insomma nel complicatissimo risiko in atto, col voto di giovedì sera Prodi ha conquistato solo il primo territorio ma non è detto che alla fine del gioco le sue truppe resteranno in piedi, anche perché quello che dovrebbe essere il suo generale in capo, Walter Veltroni, continua ad arroccarsi, come nel caso della legge elettorale, in soluzioni tattiche cervellotiche e astruse destinate fatalmente a generare ulteriori ammutinamenti interni, tutto sommato poi non molto scostanti dai suoi reali interessi di defezione strategica.

Dall’altra parte se Sparta piange, Atene non ride. In un centrodestra nebuloso come non succedeva da tempo, infatti, Casini annaspa nella palude centrista e Gianfranco Fini vaglia seriamente lo smarcamento dal Cavaliere per giocarsi la partita della leadership, procurando le ovvie e risentite repliche di quest’ultimo. Da qualunque parte lo si scruti, quindi, il cielo resta sempre fosco e il temporale più che mai prossimo.