Per il Pdl è l’ultima occasione per uscire dalla lunga transizione

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Per il Pdl è l’ultima occasione per uscire dalla lunga transizione

02 Aprile 2010

Lo ha ricordato con chiarezza Angelo Panebianco qualche giorno fa, non è possibile ricavare indicazioni politiche precise dal voto delle regionali. Inutile, perciò, aggiungere un altro commento ai tanti che abbiamo letto. Conviene, semmai, limitarsi a una considerazione. Dalle urne ci arriva una buona notizia: il governo è in buona salute e può continuare a lavorare. Il traguardo del governo di legislatura è finalmente a portata di mano. Un traguardo importante se si considera che dall’unità d’Italia, in quasi centotrenta anni di vita libera, non abbiamo mai avuto governi di lunga durata. Questo non solo durante la cosiddetta prima repubblica, dove un esecutivo restava in carica per circa dieci mesi, ma nel sessantennio liberale. Anche in presenza di leader parlamentari autorevoli e accreditati, come Depretis o Giolitti, la vita dei governi era sempre incerta, esposta al ricatto di questa o quella consorteria politica. Siamo di fronte a un risultato storico. Ancora più notevole se si considera che esso verrà conseguito senza nessuna modifica costituzionale, ma solo come un importante aggiustamento della costituzione materiale.

Una simile situazione ha però due facce, una positiva, l’altra negativa. Instaurare una prassi virtuosa è certo una buona cosa. Una volta che l’elettore ha preso gusto ad eleggere direttamente il governo e a valutarne l’operato nell’arco di un quinquennio, risulta difficile tornare alla prassi dei governicchi di pochi mesi, con rimpasti mensili e verifiche settimanali. Tuttavia occorre considerare che per giungere a questo risultato, che è da tempo nel comune sentire, ci sono voluti più di quindici anni nei quali lo spauracchio della restaurazione centrista era sempre dietro l’angolo. Non si può pensare di impiegare altri quindici anni per adeguare la costituzione formale alla prassi che si è andata faticosamente instaurando in questo non breve arco di tempo. Nel triennio che ci separa dalla fine della legislatura occorre mettere mano a quella riforma costituzionale che serva a chiudere la transizione, assicurando due condizioni essenziali. In primo luogo, garantire una piena trasparenza nel rapporto tra voto popolare e governo; in secondo luogo, dare stabilità ed efficacia all’esecutivo.

Per raggiungere questo fine non c’è bisogno di una riscrittura molto estesa della costituzione, ma basta una riforma mirata che punti all’essenziale. Ridefinizione della forma di governo, istituendo una democrazia immediata (il presidenzialismo in senso comune di cui parlava Quagliariello la settimana scorsa). Superamento del bicameralismo "perfetto" (ironia delle definizione tecniche) con contestuale riduzione del numero dei parlamentari. Infine, una legge elettorale più selettiva che scoraggi la moltiplicazione di partiti bidone, vocati a diventare ago della bilancia, o di formazioni ribellistico-parassitarie, portatrici di istanze demagogiche a ventiquattro carati. L’ideale sarebbe tornare al collegio uninominale, accompagnato da una soglia di sbarramento sul piano nazionale. Ma in subordine potrebbe andare bene anche una legge a modello spagnolo, con collegi piccoli in grado di assicurare da un lato visibilità agli eletti e dall’altro trasparenza agli elettori.

L’obiettivo appare pienamente perseguibile anche perché la dirigenza del PdL sembra consapevole dell’importanza della posta in gioco. Tuttavia vanno considerati alcuni ostacoli presenti sul cammino. Il primo è costituito dalla debolezza del Pd. Per quanto Bersani non possa essere considerato un demagogo di professione, si trova alla guida di un partito in crisi d’identità, incalzato dal giustizialismo dipietrista. Un partito nel quale il fondamentalismo antiberlusconiano è stata troppo spesso un comodo succedaneo alla definizione di una linea coerente. C’è da sperare che gli insuccessi politici servano da lezione e che si possa trovare, se non una linea d’intesa totale, almeno una convergenza su alcuni punti essenziali.

C’è poi un ostacolo interno alla maggioranza. Quella che, con una formula sintetica, si può chiamare la resistenza partitocratica leghista. In tutti questi anni, non solo all’epoca del ribaltone del 1994 o della bicamerale D’Alema, il partito di Bossi ha sempre anteposto, con esasperata coerenza identitaria, l’interesse del movimento all’interesse generale. Una tattica vantaggiosa per accrescere i consensi del partito, ma non certo utile a completare il percorso delle riforme istituzionali. In questi giorni abbiamo sentito molti discorsi sulla capacità leghista di trovarsi in sintonia con la pancia del paese, o di essere presente sul territorio. Può darsi che le cose stiano così, tuttavia una classe dirigente si valuta non in base alla bravura con cui persegue la ragione di partito, ma in base alla capacità di farsi carico dell’interesse generale. Pasticciare ancora una volta (come fu fatto con la riforma fallita del 2005) o tirare la corda per accrescere il potere negoziale del partito (specialità in cui eccellono i dirigenti leghisti) significherebbe perdere un’occasione storica. Davvero non ce lo possiamo permettere.