Per il Pdl non è tempo di depressione ma di reinventare un partito vero
14 Novembre 2011
Non è tempo di depressione. Il Pdl non è finito. Ed ha l’occasione storica di dimostrare che l’epoca del suo noviziato si è conclusa. Adesso deve misurarsi con la crisi. E’ diventato adulto alla scuola delle difficoltà che forse qualcuno immaginava non dovessero entrare mai nel suo perimetro. Deve, dunque, nonostante tutto quello che è accaduto nel breve spazio di pochi mesi, reinventarsi come soggetto permanente e attivo della politica italiana. Nel solo modo possibile: accettare la sua speciale condizione di primo partito italiano (fino a prova contraria) e condursi sul territorio, tra la gente, nelle istituzioni rappresentative come se fosse un debuttante sulla scena politica. Il ché significa pensarsi quotidianamente come un partito di militanti che ha quale obiettivo primario quello di trasmettere un’idea di rinnovamento culturale, sociale e politico assolutamente rigoroso, coerente, ricco di contenuti e dimentico, almeno in questa fase, delle suggestioni di un immediato ritorno al potere.
Se gli italiani percepiranno il Pdl come il “Partito del popolo e della nazione” (superando più di duecento anni dopo la dicotomia che divise Henry Bolingbroke e Edmund Burke), i risultati, anche in termini elettorali, non tarderanno a manifestarsi. L’impegno, naturalmente, al fine di ottenere lo scopo, dovrebbe essere costante ed intelligente da parte di tutti, conducendo un’opposizione al sistema (non al provvisorio governo che entrerà in carica per gestire l’emergenza) che si riannodi con quella che legittimò la costruzione del centrodestra nel 1994.
Credo che, con buona pace degli scettici, se si lavorerà sulle idee, i programmi, l’affinamento delle compatibilità delle varie anime del Pdl non sarà impossibile raggiungere l’obiettivo di riconquistare il primato politico in tempi relativamente brevi.
Per essere più chiaro, aggiungo che o il Pdl diventa il punto di raccolta – magari chiamandosi in un’altra maniera, visto che come dice Berlusconi, il nome non è molto suggestivo – di tutte le componenti riformiste, nazional-conservatrici, cattolico-solidariste e liberali elaborando una sintesi nuova rispetto al “confusionismo” che negli ultimi tre anni lo ha caratterizzato, o è destinato a sfarinarsi. E, a tale riguardo, l’occasione della crisi sembra quantomai propizia per fare pulizia abbandonando, se non mettendo alla porta, coloro che dovessero lavorare per il re di Prussia, facendo valere i loro interessi impolitici o extrapolitici per condizionare la fase nuova che si apre.
Insomma, chi decide di starci nel Pdl dovrebbe assumere un atteggiamento di fattiva collaborazione pur richiamandosi alla propria tradizione politico-culturale e perfino dando vita a seri gruppi che lavorino in sintonia con altri al fine di addivenire ad un progetto comune nel quale la “ibridazione” delle identità risulti una ricchezza alla quale poter attingere nel delineare i nuovi scenari che inevitabilmente dovranno concretizzarsi.
Non vedo, dunque, per quale motivo il soggetto-partito non debba strutturarsi come una federazione di micro-componenti che propendano per l’amalgama piuttosto che per la dispersione. E’ questo un tema che è mancato alla riflessione nel nascente Pdl, pur invocata o quantomeno vagheggiata, da qualcuno. Se si fosse proceduto in tal senso le manifestazioni di rigetto che hanno messo in difficoltà il partito non sarebbero state possibili. Acqua passata, comunque.
Davanti a Berlusconi e ad Alfano sta ora la prospettiva della ricostruzione. Non sarà il Maldestro a dire come procedere. Ma se tutti coloro che hanno idee da proporre si facessero avanti, nei modi che ritengono più opportuni, non sarebbe male. A condizione che nessuno venga considerato velleitario o guardato con sufficienza dalle piccoli o grandi oligarchie che hanno frenato il moto di rinnovamento che pure fino al 2008 è stato percepito nel centrodestra, salvo poi eclissarsi per motivi a tutti noti.
Bisogna ricominciare. Da dove lo decideranno il presidente ed il segretario. Possibilmente senza tenere nessuno fuori dalla porta e trattando direttamente con l’ultimo dei militanti senza farlo passare attraverso i varchi delle varie nomenclature. Il partito aperto non è necessariamente un partito leggero. Al contrario è un partito strutturato, organizzato, capillarmente presente sul territorio. Lo immagino all’antica, evidentemente. Con persone in moto perpetuo girovaganti per l’Italia, impegnati in riunioni fumose, noiose, faticose, in sezioni splendide oppure scalcinate. Certo, senza gettare nel cestino il computer o l’iPad, ma anzi avvalendosi delle più sofisticate tecnologie per arrivare con le idee e soltanto con le idee dovunque c’è un’intelligenza da raggiungere e con la quale colloquiare.
Troppo difficile, impegnativo? Il partito globale è innanzitutto il partito delle piccole cose. Interessarsi a ciò che sembra inessenziale o minimo significa aprirsi al mondo ed entrare nella dimensione dell’accesso al futuro. Un futuro che non inizia a Montecitorio e non finisce al Quirinale, passando per tutti i santuari del potere. Ma sta altrove, si sta sviluppando vicino a noi e se non riusciamo a vederlo, la colpa è soltanto della nostra anima cieca.