Per insegnare ai ragazzi le scuole devono prima imparare a giudicarsi
06 Marzo 2011
La rilevazione censuaria degli apprendimenti dei discenti, svolta in modo sistematico dall’anno 2008/09 dall’Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema di Istruzione (INValSI) nei momenti topici del loro percorso di formazione scolastica, trae la sua legittimazione educativa dal miglioramento della qualità degli apprendimenti medesimi.
Essi sono, e non possono non essere, la risultante di un processo complesso di insegnamento/apprendimento che si realizza in condizioni determinate: l’ambiente socio-culturale di appartenenza, il contesto territoriale, la scuola – intesa sia come struttura per l’apprendimento a disposizione dei discenti sia come organizzazione dello spazio e del tempo – i docenti che ogni discente ‘incontra’ dai tre ai diciannove anni.
Ciò che contraddistingue quest’anno è il coinvolgimento nella rilevazione degli studenti degli istituti di istruzione secondaria di II grado, come definito nella Direttiva 74/2008. Essa ha avuto il merito di aver dato concreta attuazione alla legge 53/2003 e del decreto legislativo 59/2004, avendo di mira il miglioramento della qualità degli apprendimenti, che è una variabile dipendente del miglioramento della qualità delle scuole.
Monitorare e valutare i processi, le persone che li pongono in essere (docenti e dirigenti, in primis) ed il servizio pubblico realizzato può essere difficile ma non può divenire un tabù, come lo è stato per molti, troppi, anni: anche quando, nella seconda metà degli anni ’90, una proposta ministeriale di ‘premiare’ i docenti meritevoli (il cosiddetto ’concorsone’) fu sonoramente bocciata da sindacati ed operatori della scuola con una antistorica levata di scudi. Antistorica perché non si poteva allora e non si può pensare oggi che, nella società globalizzata del XXI secolo, non si debbano monitorare e valutare i percorsi, i processi ed i risultati formativi conseguiti dalle scuole, considerando le condizioni.
Si potrebbe obiettare da parte di qualcuno che non può esistere valutazione oggettiva se mancano gli standard nazionali di riferimento: alla luce della L. 15/09 e del D. Lgs. 150/09, che statuiscono la definizione di un ciclo della performance, anche le scuole autonome, come ogni P. A., debbono attivarsi strategicamente per realizzare procedure di monitoraggio e di valutazione del proprio operato i cui risultati sono da presentare periodicamente anche davanti alla comunità di riferimento, mediante il bilancio sociale.
E’ questa una via attraverso la quale le scuole possono uscire dalle troppe volte lamentate secche dell’autoreferenzialità e dai gorghi del solipsismo inefficace, conseguendo risultati migliori negli apprendimenti da parte dei fruitori del proprio servizio scolastico.
Valutare la qualità dei processi formativi attraverso il bilancio sociale è il modo migliore per rendere ragione della qualità degli apprendimenti, consentendo ai portatori di interessi diffusi (in primis i genitori) di giudicare se la scuola aggiunge valore, se è capace di realizzare il successo formativo di ogni studente, misurabile attraverso indicatori precisi, nella comunità territoriale di riferimento.
Lo sviluppo della valutazione delle performances delle scuole e la rilevazione strategica degli esiti dei discenti significa utilizzare razionalmente tutte le risorse disponibili: operazione doverosa, visto che è utilizzato denaro pubblico o di privati, portatori di interessi, come i genitori dei discenti, che talvolta danno contributi finalizzati a questa o quella attività.
Porsi nell’ottica della valutazione dei docenti (e dei loro dirigenti) significa valorizzarli (e remunerarli) come professionisti dell’apprendimento e non collocarli tutti insieme sullo stesso piano, avalutativo, e distribuire il (poco) denaro indifferenziatamente dall’ingresso nella categoria fino al termine senza possibilità di progredire in carriera, soltanto per anzianità e non per altro merito. Una patente assurdità, ma, purtroppo, un vero e proprio punctum dolens della scuola italiana.
E’ tempo che le professionalità competenti e serie vengano individuate, implementate e valorizzate senza timore di “dividere la categoria”, come nella peggiore tradizione paleosindacale, quando, nel secolo scorso, la scuola pubblica aveva la funzione di valvola di sfogo della disoccupazione intellettuale con diverse ondate di assunzioni ope legis più o meno mascherate.
Oggi, le scuole autonome (ed i loro dirigenti) non possono, né devono, utilizzare ‘a pioggia’ le risorse: ove lo facessero, ne scapiterebbe l’impegno dei “migliori”, che si demotiverebbero, e si premierebbe l’inerzia dei “peggiori”, abbassando la qualità media dell’insegnamento e, quindi, degli apprendimenti e dell’intero sistema scuola, che, come attestano le statistiche, non riesce più ad essere un ascensore per la mobilità sociale.
I docenti bravissimi (e ce ne sono molti), i bravi, i meno bravi, i disinteressati, i poco capaci (ed, ahimè, tanti ce ne sono) non possono continuare ad essere trattati anche economicamente allo stesso modo, sulla base di un patto scellerato: alcuna qualità richiesta/pretesa, ma controlli inesistenti.
I veri danneggiati? I ‘Gianni’ di tutte le età – come li chiamava don Lorenzo Milani – dalla scuola dell’infanzia alla secondaria di secondo grado, soprattutto, come recita l’art. 34 della Costituzione della Repubblica, quelli capaci e meritevoli che, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi per potere diventare ‘sovrani’.