Per la Cgil far causa all’impresa è normale regola di buonsenso
05 Novembre 2010
Perché un lavoratore dovrebbe far causa al proprio datore di lavoro? Quando, invece, un lavoratore potrebbe evitare di tirare per la giacca il suo capo in tribunale? Per chi avesse difficoltà a dare una risposta alle due domande, suggeriamo un piccolo aiutino: leggere la Lettera inviata il 28 ottobre al Ministro del lavoro, Maurizio Sacconi, dal Segretario confederale della Cgil, Fulvio Fammoni. Una lettura dalla quale ne ricaverà uno stimolo di riflessione, serio e responsabile, sul come sono e sul come andrebbero esercitati i diritti (e i doveri) sul mercato del lavoro da parte dei lavoratori, delle imprese e, soprattutto, dei Sindacati.
La missiva richiede una modifica di una norma non ancora entrata in vigore, prevista dal cosiddetto Collegato lavoro. Questo provvedimento – è il disegno di legge n. 1441/quater/F che si trova adesso alla registrazione presso la corte dei conti, prima di passare in gazzetta ufficiale – è stato approvato in via definitiva dalla Camera il 19 ottobre scorso, dopo due anni di gestazione e un forzoso ritorno in Parlamento su iniziativa del Capo dello Stato. Contiene varie disposizioni tra cui – e arriviamo al dunque della richiesta – una che modifica i termini per impugnare i licenziamenti. «Una vera e propria tagliola giudiziaria dei diritti», rimprovera il Sindacalista, «nei confronti di tutti quei lavoratori temporanei e, in genere, precari che non solo perderanno il lavoro in futuro, ma che lo hanno già perso durante questa fase di crisi».
Logica vuole che, fatta un’accusa, questa venga seguita da un’adeguata motivazione. Ed è così che avviene nella Lettera. Infatti, Fammoni accusa che la «profonda novità confligge soprattutto con una regola di normale buonsenso» di cui ne spiega il profilo operativo. Prima di riportare questa spiegazione, è opportuno chiarire in che cosa consista anche la “profonda novità”. Consiste in questo: si stabilisce che il lavoratore, il quale voglia far causa al proprio datore di lavoro per il suo licenziamento, potrà farlo entro 60 giorni e che questo termine decadenziale si applicherà – qui sta il torto, secondo la Cgil – anche nei contratti di lavoro a carattere temporaneo o precario e a tutti i rapporti a termine conclusi prima dell’entrata in vigore del Collegato (quando sarà), con la conseguenza che, trascorsi 60 giorni dall’operatività della nuova norma, non vi sarà più alcuna possibilità di contestare le risoluzioni di tali contratti. Ecco qua lo scandalo di Fammoni. Lo scandalo della palese violazione di una “regola di normale buonsenso” che spiega in questi termini: «alla scadenza del contratto (temporaneo o precario, nda) il lavoratore aspetterà di verificare se il contratto sarà eventualmente reiterano prima di impegnarsi in una causa per irregolarità». Capito qual è la “regola di buonsenso”? C’è dell’assurdo.
Si afferma come “regola di normale buonsenso” la subdola e sottintesa arma di ricatto che avrebbe in mano il lavoratore, ogni lavoratore precario: “se non mi riassumi ti denuncio”; oppure “se mi riassumi non ti faccio causa”. L’una versione per avvertire “se non mi riassumi ti porto in Tribunale anche se non ho motivi per farlo, ma solo per crearti casini”; e con ragione, considerando che dura in media 4 anni e mezzo una causa di lavoro! L’altra versione per avvisare “chiudo un occhio sullo straordinario in più che ho fatto se mi riassumi”.
A vederlo riferire dal Sindacalista, è legittimo dedurre che si tratti, prima di tutto, di un’espressione del Sindacato, in cui cioè ci si riconosca la Cgil. Questo è ciò che maggiormente preoccupa: quali garanzie di tutela del bene collettivo possono arrivare da un Sindacato che si fa paladino della difesa del (presunto) diritto di ricatto nei confronti del datore di lavoro, reo perché restio alla reiterazione di un contratto di lavoro?
A questo punto si possono riprendere in mano le domande poste all’inizio. Perché un lavoratore dovrebbe far causa al proprio datore di lavoro? Quando un lavoratore potrebbe evitare di tirare per la giacca il suo capo in tribunale? Ciascuno potrà liberamente rispondere dal proprio punto di vista. Probabilmente lo farà con la rabbia di una crisi che passa a rilento oppure con la collera di periodo di cassa integrazione che sembra non finisca mai. Risposte diverse dunque, dettate anche da una sorta di reattività soggettiva al quotidiano vissuto. Ma risposte – non si può negarlo – riflesso di una società vissuta e in fieri per il futuro da consegnare alle prossime generazioni. Società alla quale, sia concesso, la Cgil sta contribuendo poco e facendo male sul tema dell’occupazione e delle riforme del mercato del lavoro e delle relazioni industriali. Facendo male prima di tutto – e questo è assurdo – ai lavoratori, precari e non, che invece dovrebbe esclusivamente tutelare mediante la costruzione di leali rapporti di “collaborazione”, e non di “soggezione” (pregiudiziale), con le imprese.