Per l’America Pechino è un partner temibile ma decisivo

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Per l’America Pechino è un partner temibile ma decisivo

14 Ottobre 2008

E’ il tema fantasma nei discorsi dei due candidati alla presidenza degli Stati Uniti. La Cina è rimasta ai margini della corsa alla Casa Bianca e questo anche prima dello scoppio della crisi finanziaria e del conflitto nel Caucaso. Obama ha speso poche parole su Pechino. Per bilanciare le relazioni commerciali sino-americane, in caso di elezione alla presidenza, il senatore dell’Illinois ha dichiarato che si avvarrà di tutti i mezzi diplomatici disponibili per spingere la Cina ad adottare una politica valutaria più equilibrata (in parole povere, una rivalutazione dello yuan), a intraprendere una seria politica ambientale, a rispettare le regole del commercio internazionale e in materia di proprietà intellettuale.

McCain ha ripetuto un po’ gli stessi concetti del suo avversario, concentrando in particolare la sua attenzione sull’abolizione delle sovvenzioni dello Stato cinese alle proprie esportazioni manifatturiere. Per entrambi i contendenti alla presidenza, in ogni modo, gli Stati Uniti dovranno ingaggiare la Cina sul terreno della cooperazione e dell’interconnessione economica nel quadro di un sistema globale di libero scambio. E’ convinzione comune che non si possa più fare ricorso a politiche protezionistiche e isolazioniste, anche in caso di crisi congiunturale.

I rapporti tra Stati Uniti e Cina sono da diverso tempo improntati a una sempre maggiore stabilizzazione. Negli ultimi dieci anni, tra alti e bassi, a Washington si è costruito intorno alla ‘questione cinese’ un consenso bipartisan. Un mutamento di atteggiamento che ha portato la leadership cinese a non prediligere un candidato rispetto all’altro: che vinca Obama o McCain, in Cina sono convinti che non ci sarà alcun fondamentale cambio di rotta nella condotta politica di Washington in Estremo Oriente.

Ma nella storia recente delle elezioni per la presidenza degli Stati Uniti non è stato sempre così. Nel 1992, nei suoi comizi, Bill Clinton prometteva di ‘spazzare via’ tutti i regimi repressivi, da quello di Baghdad a quello di Pechino. Una presa di posizione netta che l’ex presidente democratico modificò durante il suo secondo mandato. Nel 1997, in occasione di una visita a Washington di Jiang Zemin, il suo omologo cinese, Clinton auspicò per il secolo a venire una costruttiva partnership strategica tra i due Paesi.

Quella di iniziare con toni forti nei confronti di Pechino per poi terminare con un approccio più dialogico è una caratteristica che ha contraddistinto anche il doppio mandato di G.W. Bush. L’attuale inquilino della Casa Bianca inaugurò la sua presidenza descrivendo la Cina come il "nuovo competitore strategico degli Usa": una posizione che era debitrice di una certa retorica neoconservatrice in materia. Nel suo secondo mandato, invece, Bush Jr. ha assunto un approccio diverso, che riflette la visione di Condoleezza Rice delle relazioni sino-americane.

Per il segretario di Stato Usa, la strategia più efficace per gestire l’ascesa della Cina nella scena globale è quella di favorire la sua integrazione nell’attuale sistema delle relazioni internazionali, pensato e creato dalle potenze occidentali alla fine della Seconda Guerra mondiale. Nel settembre 2005, Robert Zoellick (ora a capo della Banca Mondiale) parlò a proposito dell’interesse di Pechino ad agire come un responsible stakeholder dello stesso sistema in cui è maturato il suo miracolo politico-economico.

A guardar bene, dato lo stato dei rapporti economici tra i due Paesi, Washington non potrebbe comportarsi altrimenti. Da quando Deng Xiaoping avviò nel 1978 una serie di riforme economiche orientate all’economia di mercato, gli Usa hanno contribuito alle aperture e alla crescita della Cina fornendo capitali, tecnologia e, in particolare, un vasto mercato per le sue esportazioni. Nel primo semestre del 2008, gli Usa hanno importato beni cinesi per circa 117 miliardi di dollari. In totale, nel 2007, la somma si è aggirata intorno ai 230 milioni.

Pechino detiene la quota maggiore del debito estero americano (circa mille miliardi di dollari) e, secondo alcuni esperti cinesi, obbligazioni di Fannie Mae e Freddy Mac (i due istituti finanziari che garantiscono i fondi per il mercato immobiliare americano, da poco salvati dal Tesoro degli Stati Uniti) per un valore di 400 miliardi di dollari. Le due economie, dunque, sono ormai strettamente interdipendenti. Se negli Stati Uniti l’attuale crisi finanziaria si trasformerà in economica (con recessione e disoccupazione), Pechino perderà la più importante piazza per le sue esportazioni. Un problema di non poco conto: sarà infatti difficile per il mercato interno cinese assorbire le quote di produzione invendute all’estero.

Washington considera il ‘dragone cinese’ un elemento di stabilità in Asia. Pechino ha un ruolo chiave nei ‘Colloqui a sei’ sul disarmo nucleare della Corea del Nord. La ripresa lo scorso sabato del processo negoziale, con la cancellazione di Pyongyang dalla lista Usa degli Stati sponsor del terrore (in cambio di un sistema verificabile di ispezioni ai siti atomici nord-coreani), deve molto alla influenza moderatrice  cinese nei confronti del regime di Kim Jong-il. Alla Casa Bianca apprezzano anche l’impegno cinese per allargare la cooperazione economica con la Corea del Sud, per migliorare i rapporti con il Giappone (nonostante il pedigree ‘nazionalista’ di Taro Aso, il nuovo premier) e il fastidio con cui il governo di Pechino ha liquidato la richiesta della Russia di appoggiare la sua politica nel Caucaso.

I motivi di dissidio però non mancano. Oggi, i fronti di attrito sono in particolare due: Taiwan e Iran. Il 7 ottobre, le autorità di Pechino hanno reso noto di aver cancellato una serie di contatti militari e diplomatici con gli Stati Uniti già in calendario da tempo. La decisione è stata assunta in risposta all’imminente approvazione da parte di Washington di un pacchetto di aiuti militari a Taipei del valore di 6,5 miliardi di dollari. Una battuta d’arresto per il processo di distensione lungo lo Stretto di Taiwan, dopo i progressi seguiti all’elezione di Ma Ying-jeou – più gradito a Pechino perché meno incline del suo predecessore a fughe in avanti indipendentiste – alla presidenza taiwanese.

Fortemente dipendente dal petrolio del Golfo Persico, la Cina si è dimostrata ultimamente molto attenta a non urtare la sensibilità di Teheran nei negoziati sulla verifica del suo programma nucleare, opponendosi agli sforzi americani in sede Onu per inasprire le sanzioni economiche contro il regime degli ayatollah. La leadership cinese non sottovaluta la minaccia iraniana di chiudere lo Stretto di Hormuz (pattugliato e difeso da imbarcazioni da combattimento e sistemi missilistici ‘made in China’, ndr) in caso di un attacco armato degli Usa (o di Israele).

Sono in molti a credere che la crisi finanziaria in corso segnerà probabilmente la fine del mondo unipolare a guida americana, sorto dalle ceneri della Guerra Fredda. Nella nuova equazione di potenza che ne scaturirà, la Cina avrà certamente un ruolo fondamentale – secondo alcuni preponderante. Nell’attesa, l’amministrazione Bush prova a correre ai ripari. Lo scorso venerdì, dopo una lunga gestazione, l’accordo di cooperazione in materia nucleare (civile) tra Usa e India è divenuto operativo: nei piani della Casa Bianca, in caso di una inversione di marcia nelle relazioni bilaterali con Pechino, Delhi dovrà assumere il ruolo di contrappeso strategico al potenziale ruolo egemonico della Cina nello scacchiere asiatico. Magari, nel dibattito di mercoledì prossimo, Obama e McCain potrebbero finalmente farci conoscere il loro pensiero a proposito…