Per l’Economist solo Cameron può salvare gli inglesi dal nuovo leviatano
06 Maggio 2010
di redazione
È da lungo tempo che ci sembra di aspettare questa elezione inglese. I sondaggi suggeriscono che il vecchio duopolio tra laburisti e conservatori, che governano con maggioranze confortevoli grazie al sistema uninominale secco (first-past-the-post), sia stato sostituito da un sistema tripolare, con i liberaldemocratici di Nick Clegg in corsa per arrivare a prendere all’incirca il 30% dei voti, appena dietro i Tories di David Cameron e poco sopra i Labour di Gordon Brown. Proprio il modo in cui funziona il sistema inglese fa sì che anche cambiamenti molto piccoli nel voto popolare potrebbero fare una enorme differenza nella distribuzione dei seggi ai diversi partiti. Il “commercio di cavalli” è già iniziato, nell’attesa di formare un Parlamento ancora indefinito. Ed è il segnale di un drammatico riallineamento, del centrosinistra, del centrodestra, del Regno Unito stesso.
L’emozionante possibilità che la geometria elettorale del Paese possa essere ridisegnata ha oscurato ciò che dovrebbe essere al centro di una campagna elettorale. Ovvero che i Britannici devono giudicare i partiti in base alle loro politiche ed ai loro leader. E visto che il giorno delle voto è arrivato, la speranza è che il dibattito metta più a fuoco questi argomenti.
L’Economist non è storicamente fedele verso alcun partito, ha però un duraturo pregiudizio in favore del liberalismo. La nostra propensione verso una maggior libertà politica ed economica è stata spesso temperata da altre considerazioni: abbiamo sostenuto Barack Obama contro John McCain, Tony Blair contro Michael Howard e una serie di leader socialisti italiani rispetto a Silvio Berlusconi, perché abbiamo pensato che fossero più ispirati, competenti o onesti dei loro avversari, anche se questi ultimi hanno favorito lo “stato minimo”.
Ma in questa elezione britannica a venir fuori è la schiacciante necessità di una riforma del settore pubblico. Il disavanzo del bilancio pubblico è arrivato ad un terrificante 11.6% del PIL, un quadro che rende inevitabili l’aumento delle tasse e i tagli alle spese. Il governo ora controlla più della metà dell’economia, percentuale che arriva al 70% in Irlanda del Nord. Se la Gran Bretagna intende prosperare, occorre affrontare il Leviatano che distrugge la libertà. I conservatori, pur con tutti i loro limiti, sono i più adatti a farlo, e questa è la ragione principale per la quale daremo a loro il nostro voto.
Che succede fra i concorrenti? Per alcuni versi, il valore di Gordon Brown è sottostimato. Si è comportato bene in Afghanistan. Ha mantenuto la Gran-Bretagna fuori dall’euro, mentre Blair voleva entrarci. Qualunque cosa faccia, la Gran-Bretagna viene sempre criticata per il credit crunch: ma l’azione del premier nei confronti delle banche e della proprietà è stata limitata per non colpire il Paese. E, quando la crisi economica è iniziata, ha preso per lo più decisioni giuste. Ha salvato le banche, immesso soldi nell’economia ed ha fatto tanto quanto un qualsiasi altro leader per contribuire ad evitare una depressione globale.
Ma un primo ministro non dovrebbe ottenere troppo credito per essere uscito da una buca che lui stesso ha scavato come cancelliere. Brown ha versato soldi nei servizi pubblici. Come risultato, il disavanzo inglese – facendo una proporzione tra le due economie – è grande quasi quanto quella della Grecia; nel settore pubblico è ancora più grande. L’eredità lasciata da Brown è una bomba ad orologeria e il premier è poco attrezzato per disinnescarla.
Ha tentato di prendere le parti dei produttori – in particolare dei sindacati del settore pubblico – piuttosto che stare dalla parte dei consumatori. Ha reso frustranti alcuni degli sforzi fatti da Blair per riformare la sanità e l’istruzione ed ha rallentato altre cose una volta diventato primo ministro. Circolano voci sulle scelte presenti nel manifesto del Labour, ma Brown troppo spesso si richiama a modelli di statalismo antiquati. Ha impostato la campagna elettorale in modo incerto (vedi Bagehot), preoccupandosi a malapena di difendere il suo lavoro e concentrandosi sullo spaventare la gente riguardo i programmi dei tories.
Insomma, il governo è stanco. Inchiodato dalle lotte intestine e dagli scandali, come accadde ai tories nel 1997, il New Labour ha fatto il suo tempo: c’è qualche speranza che un “hung parliament” spinga a un ripensamento del centrosinistra: un partito che presenti Miliband e Mandelson. Ma la cosa migliore per il paese è che i laburisti spostino il loro incombente esaurimento nervoso sui banchi dell’opposizione. Un cambio di governo è essenziale.
Allora perché non cambiare favorendo i Liberal Democratici? Il “surge” di Clegg è stato eccitante, tanto più che i vili tentativi di calunniarlo fatti dai conservatori, spaventati, sembrano falliti. Questo giornale sta cercando un partito liberale credibile per la Gran Bretagna da un secolo. Clegg è intelligente e affascinante. Condividiamo il suo entusiasmo per le libertà civili e la sua propensione a combattere in favore degli immigrati. Ed ha ragione quando dice che il sistema di voto, per il quale potrebbe prendere lo stesso numero di voti di Brown ma ottenere solo un terzo dei suoi seggi, è ingiusto.
Ma guardate alle politiche, piuttosto che all’uomo, e i liberaldemocratici vi sembreranno meno attraenti. In caso di un altro trattato europeo, vorrebbero tenere un referendum non sul trattato stesso ma sulla possibilità di restare o meno nell’Unione Europea; strano, dato che (sbagliando) vogliono far adottare alla Gran Bretagna l’euro. Stanno flirtando con la gente usando il tema del disarmo nucleare. Abolirebbero le rette universitarie, che vorrebbe dire lasciar decadere la qualità dell’istruzione superiore oppure alzare le tasse agli allievi più benestanti per incrementare i fondi. Si sono preoccupati per il cambiamento climatico ma si oppongono all’espansione del nucleare, che è il modo più plausibile per tagliare le emissioni.
Le loro politiche riguardo al mondo degli affari sono, discutibilmente, più a sinistra di quelle dei laburisti. Una tassa del 50 per cento sugli utili da capitale, dando sollievo agli alti tassi sulle pensioni e una batosta fiscale per gli elegantoni che hanno proprietà immobiliari, non darebbero nuova forza imprenditoriale alla GranBretagna. Vince Cable, il “chancellor-in-waiting” dei liberaldemocratici, ha recentemente smentito le voci che parlavano di un previsto aumento dei costi della previdenza sociale, bollandole come “nauseanti”; questa sensibilità potrebbe tranquillamente essere approvata da chi crea la ricchezza nel Paese se i Lib-Dem andassero al potere.
Può essere d’aiuto un confronto internazionale. I liberaldemocratici tedeschi hanno adottato tutti e due i volti del liberalismo: credono sia nelle libertà civili che nel libero mercato. I Liberal Democrats, una coalizione a metà fra i grandi partiti di governo di una volta e i socialdemocratici sul modello dell’Europa continentale, ancora non hanno fatto lo stesso salto verso un centro radicale. Gli ottimisti sperano che un Parlamento in bilico e un riallineamento verso il centrodestra spingerebbero i Lib-Dem a compiere quel salto, ma al momento Clegg e i suoi sembrano incerti se stare a sinistra o a destra del Labour. Anche se queste elezioni sono una specie di “vacanza” dal normale andamento della vita politica inglese, Clegg è stato una deliziosa luna di miele per molti britannici; ma questo giornale non immagina di “viaggiare” con lui per i prossimi 5 anni.
Restano i Tory. I loro piani hanno chiaramente dei buchi. Hanno condotto una campagna elettorale scialba. Non approviamo le loro frange euro-fobiche e le loro esagerazioni sulla malridotta società inglese. Abbiamo pensato che sbagliassero nell’opporsi agli stimoli economici dopo il crack delle banche. Cameron è incline ad attacchi di compiacenza – ampiamente illustrati l’anno scorso dal suo rifiuto di usare lo scandalo dei rimborsi gonfiati come pretesto per liberarsi di Lord Ashcroft, un discutibile finanziatore dei cui soldi i Tories chiaramente non hanno bisogno. Cameron non ha fatto abbastanza per convincere gli elettori che fosse lui l’uomo giusto per il cambiamento – e così ha creato uno spazio in cui si è abilmente inserito Clegg.
Apena il caleidoscopio di queste bizzarre elezioni si è disegnato, l’avanzata di Clegg è apparsa relativamente piccola pur nei suoi colori brillanti, solo offuscando quelli molto più grandi di Cameron. Giudicato per gli ultimi 4 anni, e non per le ultime 4 settimane, Cameron ha fatto molto per modernizzare il partito, liberandosi delle sue espressioni sociali più illiberali, riducendo i colpi contro l’Europa e rilanciando l’ambientalismo. Durante gli anni del boom, il suo discusso cancelliere, George Osborne, non ha dato l’ok alle richieste per ridurre le imposte, concentrandosi sul buco delle finanze pubbliche; al congresso dei Tory dello scorso annop, quando Brown non era ancora in grado di annunciare i “tagli”, Osborne fu il primo politico a impegnare il suo partito in un programma di austerità.
Da allora, come gli altri partiti, i Tories sono andati cauti sui tagli. Ma, più dei loro rivali, sono intenzionati a ridisegnare lo stato. Riformerebbero la sanità pubblica (National Health Service) portando nel sistema più fornitori esterni; i loro programmi per far sì che genitori e insegnanti abbiano il giusto peso nel dare una risistemata all’istruzione pubblica è l’idea più radicale di questa elezione. “Centralizzatori” sotto Margaret Thatcher, ora vogliono ridistribuire il potere localmente, affidandolo ai funzionari eletti, inclusi sindaci e capi di polizia. Tra loro c’è qualcuno che blatera tra le nuvole di “Big Society”. Altri dei loro pezzi non andranno lontano: è insensato tenere fuori dalle scuole le compagnie che producono profitti e sbagliato esentare la sanità pubblica dai tagli. Ma Cameron è molto più vicino a trovare delle risposte alle esigenze del Paese rispetto ai suoi rivali. In questa elezione complicata, e forse inevitabilmente imperfetta, il leader dei conservatori avrà il nostro voto.
Tratto da Economist.