Per l’università della Gelmini è proprio il momento della resa dei conti
11 Ottobre 2010
Si può pure discutere sulla riforma universitaria. La si può certamente migliorare in molti suoi aspetti. Si può cercare di ridare una regolata ai conti degli Atenei italiani, per esempio, con una stretta meno rigida sulle risorse. Si può pensare di tutelare meglio alcuni percorsi di studio, che sono il fiore all’occhiello della ricerca italiana. Come ogni legge, anche quella della Gelmini è perfettibile. Però una cosa è certa: se l’università è – come tutti sembrano ormai concordare – un malato grave, che ha bisogno di essere curato, la certezza e i tempi di questa cura sono essenziali. E, almeno fino ad oggi, tutto sembra essere stato tranne che i protagonisti di questa scena politica abbiano avuto intenzione di far chiarezza e il più presto possibile.
Eppure, per evitare di essere fuori tempo massimo e perdere anche quel poco di eccellenza che ancora sopravvive nelle nostre università a poco può servire un’improvvida presa di posizione politica sulle date di calendarizzazione della discussione del ddl Gelmini tra la Commissione e l’Aula, come c’è stata nei giorni scorsi alla Camera, soprattutto se poi in Aula (come è attualmente) l’attività parlamentare è pressoché immobile. Così come è un refrain che non può più funzionare l’ennesima stretta sui conti imposta dal ministro Tremonti, che sembra esser stato l’ultimo ulteriore impedimento incontrato dalla Gelmini nel suo percorso verso l’approvazione della riforma.
Oramai è chiaro che il ministro si gioca tutta la sua carta politica nelle prossime quarant’otto ore e su due punti: far slittare l’inizio dell’esame della sessione di bilancio, e quindi trovare i tempi tecnici di approvazione del testo della riforma, e riuscire a “scucire” a Tremonti risorse straordinarie che andrebbero a garanzia di circa 3000 ricercatori – il nerbo dell’università italiana – e per un incremento dell’FFO, il Fondo per la Formazione Ordinaria, che eroga le risorse ordinarie per le Università.
Oggi però il quadro dovrebbe essere più chiaro, e lo scioglimento dei nodi tecnici dovrebbe determinare anche un chiarimento dei nodi politici. Proprio in giornata, infatti, si dovrebbe decidere se il ddl arriverà all’esame dell’Aula il 14 ottobre, il giorno prima della discussione della sessione di Bilancio, per la discussione generale. E l’iter del ddl potrebbe a quel punto seguire due indirizzi: ottenere un primo complessivo via libera, per poi discutere degli specifici punti durante la sessione di bilancio, o subire uno slittamento ulteriore. Questo significa che i tempi di approvazione si allungherebbero notevolmente e la riforma universitaria non potrebbe essere approvata prima del termine della sessione di bilancio stessa, ovvero dicembre nella migliore delle ipotesi, quando cioè le attività accademiche saranno incominciate da un pezzo e il governo potrebbe iniziare ad avviarsi a inaugurare una nuova stagione elettorale più che riformatrice.
Insomma, tutto ancora in alto mare. Una cosa è certa: se si continua a scambiare l’Università per un terreno di scontro politico, senza considerarla un’istituzione del Paese non faremmo altro che continuare a commettere lo stesso, tragico errore compiuto per decenni dalla sinistra, che ha sempre guardato alla scuola e all’Università come al proprio presidio politico per eccellenza.
Oggi più che mai nei decenni passati, attorno al ddl Gelmini si è stretto un cerchio di consapevoli sostenitori, che dalla Crui, la conferenza dei Rettori, al Cun, il Consiglio universitario nazionale , arriva a Confindustria e, con dei distinguo, persino al Pd. Lo slittamento dei tempi di approvazione, se non addirittura l’insabbiamento della riforma, avrebbe il sapore amaro dell’ennesima occasione perduta. Se il ddl dovesse rimanere lettera morta non solo sarebbe una sconfitta per il centrodestra, che su questa riforma ha investito parecchio, ma sarebbe una sconfitta per tutti.