Per occuparsi di petrolio ci sono 1000 buone ragioni. E gli investitori lo sanno
14 Luglio 2008
Un Euro e sessanta. Tremiladuecento vecchie lire. E i cinquantenni che erano già bambini quando fu scandalo perché si arrivava alla cento Lire per litro di benzina. Maledetti speculatori.
O no? Tanto per arrotondare, di un Euro e sessanta centesimi quel che si spartisce la banda di Nottingham (sceicchi, petrolieri, untori, raffinatori, e financo benzinai) sono sessanta centesimi; e l’Euro che le resta se lo incamera di imposte e tasse il Tesoro italiano. La distribuzione, detta così, pare un po’ sperequata; ma tutto e solo a vantaggio dello Stato nostro.
Poi è vero che sessanta centesimi alla catena produttiva sono in assoluto tanti, che i costi di produzione (per adesso…) non li giustificano e che per arrivarci può aiutare che qualcuno ci speculi. Oggi i mercati finanziari consentono di speculare sul rialzo del petrolio, e di aiutare con ciò la spinta al rialzo stesso, quasi senza rischiare una lira di proprio; e lavorare a limitare il fenomeno è senz’altro giusto e meritorio. Al netto della perversità dei meccanismi dell’oggi, la “speculazione” però altro non è che prosecuzione del mercato con altre forme. Non si indirizza al petrolio anziché ai meloni per un qualche particolare fascino dell’oggetto. Va dove c’è tensione tra domanda e offerta.
Il petrolio è un bene non rinnovabile, il che alimenta la paura di una sua insufficienza futura ai nostri bisogni; è largamente insostituibile nel medio periodo; ed oggi ha una capacità produttiva che sta attorno al 5% sopra la domanda. La domanda è rigida; il che da un lato significa che il prezzo è tecnicamente di mercato ( a 160 dollari ce lo stiamo comprando tutto comunque, e tutto indica che lo faremmo anche a 200; il che una volta voleva dire che non avrebbe senso per il venditore vendere a meno…) e dall’altro che bastano due incidenti o una qualche intemperie (al netto dell’Iran) a dar preoccupazione sul lato dell’approvvigionamento. Insomma per un investitore finanziario, anche non perverso, ci sono almeno mille buone ragioni per non occuparsi di meloni.
E’ giusto combattere la perversione; ma anche se miracolosamente la elimini la tensione resta. E per lavorare sulla tensione, tanto per stare sul classico, devi provarti ad aumentare l’offerta e/o a ridurre la domanda. Se ci riesci (e in maniera radicale non ci si riesce comunque; però già contenere aiuta) puoi star certo che la speculazione riconsidererà con favore il mercato del popone.
Sul lato dell’offerta, siamo oggi destinatari di forti dosi di ottimismo petrolifero. Ripartito il prezzo, dicono, ripartono gli investimenti; e questo darà fiato ad un significativo aumento della produzione futura. Non ci farei troppissimo conto. Il petrolio che resta è in passar di tempo di sempre più difficile e costosa produzione e coltivare petrolio richiede tempi sensibilmente più lunghi di quelli richiesti da una nuova coltivazione di granoturco. Fidarsi, o fidarsi solo del risalire dell’offerta non è buona politica. Se la nuova produzione non arriva in tempo, il rischio si fa molto alto. Che non ci sia sufficiente petrolio perché sta finendo o perché non si riesce a produrne abbastanza non fa infatti molta differenza.
E sul lato della domanda, nel (poco) tempo libero che ci lascia il dibattito sulla speculazione? Anzitutto dovremmo ricordarci che il petrolio è soprattutto trasporto, e tanto più quanto un Paese è sviluppato. Il trasporto si beve il 50% dei consumi mondiali; ed il 70% di quelli americani. Se domani mattina, con un colpo di bacchetta magica, ci riuscisse di far scendere i consumi per veicolo degli Stati Uniti a livello di quelli europei potremmo fare a meno sul lato dell’offerta dell’intera produzione iraniana. Meglio di un’invasione.
I ritmi degli investimenti sul lato dell’offerta dipendono da Paesi produttori e società petrolifere. Quelli del contenimento della domanda dai consumatori e dai loro governi. E’ vero che Cina e Paesi in via di sviluppo sono in continua espansione dei propri consumi. Ma è bastato che i consumi cominciassero quasi impercettibilmente a calare in Occidente per tenere l’aumento mondiale previsto per il 2008 nell’ordine dello 0,8%.
Insomma non è vero che il prezzo cresce perché la Cina fa tumultuosamente crescere i consumi mondiali ed è vero che abbiamo margini per più che controbilanciare nel breve periodo la crescita cinese con il calo Occidentale. Tutto quello che ci riesce di consumare in meno per spostare noi stessi e le nostre merci allevia la tensione. Molto si può fare e forse persino l’idea di una tassa di immatricolazione sui nuovi veicoli basata sul loro consumo e vertiginosamente più che proporzionale allo stesso potrebbe non suonare più blasfema.
Domanda, offerta e speculazione. Stiamo parlando dei sessanta centesimi. E l’Euro? Non potremmo cominciare a far mordere meno la crisi dentro le tasche del consumatore nostro tagliando un po’ di quel maledetto Euro di tasse? Ha pure il vantaggio che si può far da domattina, e senza tutte quelle più o meno astruse speculazioni (ops…) che si accompagnano ai discorsi su domanda e offerta. Sapendo di essere blasfemo, dico che non mi pare una buona idea. Negli Stati Uniti c’erano (quasi) solo i centesimi. Piccolo prezzo, grande auto. Il petrolio si impenna, e l’aumento (anche se il prezzo finale oggi continua ad essere centesimi) è inconciliabile con le abitudini. La casa lontana dal luogo di lavoro è in vendita; e a Detroit è crisi nera. Da noi si regge meglio. Grande prezzo, piccolo motore. Quell’Euro di tasse ci ha per paradosso insegnato un po’ di efficienza e di risparmio energetico. Non sarà molto liberista; però neanche il petrolio è Coca-Cola.
Poi ci possono essere settori a cui quell’Euro bisognerà, purché transitoriamente, farlo pagare di meno, per evitare dal peschereccio al tassì che si trasli troppo bruscamente sui prezzi finali di beni e servizi; ed anche contingenze in cui può essere necessario calmierarlo o sterilizzarlo per tutti (che se sessanta centesimi per la catena produttiva sono in cifra assoluta tanti, un Euro al Tesoro è comunque tantissimo). Però tenendo ferma l’idea che un prezzo (sostenibilmente) alto è, come insegna l’esperienza d’ Oltreoceano, condizione di intervento sulla tensione; ed anche probabilmente della possibilità di riuscire prima o poi a fare il pieno di qualcos’altro.