Per ora la politica economica di Monti sembra solo una copia di quella di Tremonti

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Per ora la politica economica di Monti sembra solo una copia di quella di Tremonti

05 Gennaio 2012

Nell’ultima intervista rilasciata a Le Figaro, Monti ha voluto rassicurare i partner europei sulla solidità dei fondamentali economici del Belpaese. L’Italia, ha dichiarato il premier, è una nazione che, a differenza di altri paesi come Spagna e Irlanda, non ha vissuto le bolle speculative sull’immobiliare e sulla finanza e le famiglie italiane risparmiano tanto e si indebitano poco. Nessuna novità. Sono le stesse frasi che ritroviamo nella lettura dei discorsi di Tremonti davanti alla stampa estera. Da questa prospettiva, Monti ha mancato, ancora una volta, di originalità e deve ancora dimostrare di aver intrapreso una sua via alla soluzione della crisi economica. Finora, egli si è semplicemente limitato ad avere come unico obiettivo quello del controllo dei conti, proseguendo sulla strada tracciata dal suo predecessore e perseguendo tale obiettivo con una discutibile strategia di consolidamento, avvenuta per l’85% con l’aumento di entrate e solo con il 15% tramite la diminuzione delle spese.

Se Monti è un presidente forte o debole lo vedremo presto da come si comporterà nei confronti dei suoi partner europei. Saprà, il premier, parlare chiaramente all’asse franco-tedesco, dicendogli apertamente che l’Europa tornerà a crescere se imparerà a tagliare le tasse anziché aumentarle? Che l’obiettivo di eliminare gli effetti distorsivi dell’imposizione è prioritario, anche se non indipendente, del rigore assolutista che permea i trattati europei? Se così sarà, egli avrà il diritto di spogliarsi della figura di algido tecnocrate con la quale è subentrato a Berlusconi e di reclamare un prestigio politico che andrebbe a vantaggio dell’Italia. In caso contrario, fornirebbe ai suoi detrattori la prova che un governo tecnico, incapace di risolvere problemi politici, è qualcosa che al nostro paese proprio non serve.
Nel frattempo, i problemi più urgenti che dovrà affrontare sono relativi alla riforma del mercato del lavoro. Da questo punto di vista, i sindacati, CGIL in testa, stanno innalzando le previste barriere sulla riforma dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che dovrebbe permettere alle imprese una maggiore libertà di licenziamento. Monti ha dichiarato, in questo caso, di non voler arretrare, giustificando questa posizione di intransigenza con il fatto che la richiesta di cambiamento arriva direttamente da Bruxelles. Non certamente una risposta ottimale, poiché, ad un certo punto, si spera che un politico illuminato sappia motivare le proprie politiche sociali sulla visione che egli ha della società, e non solo perché qualcun altro l’ha detto di fare. Ecco che, allora, le motivazioni che il premier dovrebbe portare sul tavolo delle trattative sono quelle di favorire la libertà di licenziamento in cambio dell’eliminazione di tutte quelle forme contrattuali che hanno precarizzato il mondo del lavoro, soprattutto quello giovanile, e che disincentivano le imprese ad investire sui giovani.

L’introduzione dei co.co.pro., è noto, ha fatto estinguere del tutto i contratti di formazione, che avevano l’obiettivo di formare un giovane lavoratore all’interno dell’azienda e non di renderlo un semi lavoratore autonomo, senza i diritti del dipendente e senza la libertà (e la remunerazione) di un professionista. Il moltiplicarsi delle forme contrattuali flessibili ha provocato la polverizzazione del rapporto di lungo periodo tra lavoratori e imprenditori, impedendo di raggiungere i risultati che il principio del learning-by-doing è in grado di assicurare alle imprese di successo. Per questo, è necessario tornare all’antico, rafforzando seriamente l’apprendistato, inteso come primo passo nella carriera dell’individuo all’interno dell’azienda. Rapporto che poi deve essere tramutato a tempo indeterminato, a meno di gravi lacerazioni, che rendono impossibile la sua prosecuzione. Tra gli altri vantaggi, le aziende sarebbero obbligate a versare contributi pensionistici ai giovani. Perché il vero vulnus della riforma pensionistica appena varata è che, come ha riconosciuto la stessa Fornero, un sistema pensionistico contributivo siffatto può reggere nel lungo periodo solo a condizione che la crescita economica sia costante e che (ovviamente) i lavoratori versino ininterrottamente contributi lungo l’arco della loro vita lavorativa. Ma quanti giovani, soprattutto laureati, hanno versato contributi prima dei trent’anni, allorché, finita la laurea, e sempre ammesso che abbiano da subito trovato un lavoro, non si siano impantanati nella palude degli stages più o meno retribuiti, o in altre forme contrattuali che a tutto pensano fuorché a garantire una pensione nel futuro?

Se la riforma del lavoro che il governo si appresta a varare non sarà in grado di risolvere questo problema, è pacifico che fra pochi anni il sistema pensionistico dovrà essere completamente riformato, perché le entrate provenienti dai giovani lavoratori saranno insufficienti per garantire i pagamenti. Pericolosamente, sta sempre più radicalizzandosi nella coscienza giovanile la consapevolezza che i soldi versati allo stato non torneranno più indietro, facendo venir meno quella fiducia nel sistema di welfare che dovrebbe caratterizzare il rapporto contribuente-amministrazione. C’è troppa sproporzione tra l’ammontare totale di contributi versati e l’ammontare di pensione ricevuto. Versare tanti soldi per poi riceverne pochi è percepito dai giovani come un furto. Se queste sono le prospettive, meglio sarebbe pensare seriamente ad abbandonare il sistema a ripartizione (retributivo o contributivo che sia) e adottare quello a capitalizzazione, tipico dei paesi anglosassoni. Con un tale sistema, ogni lavoratore è artefice del proprio destino, investendo i soldi come meglio crede, senza più passare per le casse dell’INPS.