Per Renzi anche il garantismo è tattica?
23 Ottobre 2015
Ricordate Silvio Scaglia, il manager tenuto in carcere per ottanta giorni e poi agli arresti domiciliari per nove mesi, e infine assolto con formula piena dall’accusa di associazione a delinquere finalizzata all’evasione fiscale?
Nell’ottobre 2013, dal palco della Leopolda, un Matteo Renzi in marcia trionfante verso l’incoronazione a segretario del Partito democratico, utilizzò la storia dell’ex amministratore delegato di Fastweb, vicenda che definì «indegna di un Paese civile», quale cartina di tornasole per riferirsi alla «ineludibile» necessità di porre mano alla riforma della giustizia in Italia.
Alcuni (e noi tra loro) s’illusero, pensando che le frasi su Scaglia potessero prefigurare un momento di rottura nella storia del partito erede della tradizione comunista: vuoi vedere che il sindaco fiorentino, oltre a rottamare i vecchi dirigenti, ha pure il coraggio di mandare in soffitta l’armamentario ideologico della sinistra nostrana, spezzando le catene che la tengono ostaggio del morbo giustizialista?
E Renzi, a parole, non ha perso occasione in questi mesi (abile qual è nella manipolazione concettuale) per fornire ossigeno all’idea che stesse maturando nel laboratorio del Nazareno il proposito di spendersi per il superamento delle distorsioni endemiche che, in particolare nell’ultimo ventennio, hanno lacerato il tessuto dei rapporti tra politica e magistratura, contribuendo a rendere terreno minato quello che in democrazia dovrebbe configurarsi come un corretto equilibrio tra poteri dello Stato. Rivendicazione dell’autonomia della politica, pur nel sacrosanto rispetto delle prerogative e dell’indipendenza dell’ordine giudiziario: «Per me un avviso di garanzia non è ragione sufficiente per troncare la carriera di un politico, altrimenti si darebbe ai pm un potere straripante. Credo che un cittadino sia innocente fino a prova contraria e non chiederò mai le dimissioni per un avviso di garanzia. Siamo dalla parte della giustizia, non del giustizialismo».
Poi, però, succede che il sottosegretario Francesca Barracciu venga rinviata a giudizio nell’ambito di un’inchiesta sull’uso improprio dei fondi ai gruppi del Consiglio regionale della Sardegna, e decida di fare un passo indietro dimettendosi (gesto spontaneo?) dall’incarico governativo.
A questo punto il giovanotto di Pontassieve, nel frattempo divenuto capo del Governo, cosa fa? Stando a quel che trapela dagli ambienti del "giglio magico", catechizza i suoi, spiegando loro che sì, «siamo garantisti e vale la presunzione di innocenza fino a sentenza definitiva», ma, tuttavia, un rinvio a giudizio è cosa diversa rispetto all’avviso di garanzia: significa che «per i giudici c’è materia per andare a processo». E dunque, «brava Francesca che si è dimessa».
Poco importa che Vincenzo De Luca rimanga al suo posto pur se condannato in primo grado. O meglio, proprio il caso del governatore campano suggerisce un dato di riflessione: non siamo in presenza di un garantismo renziano a correnti alternate, siamo semplicemente di fronte alla declinazione tattica del garantismo, principio che evidentemente, nell’ottica renziana, risponde ad una logica di pura gestione del potere e di mantenimento di precise dinamiche correntizie funzionali a garantire spazi di manovra al leader sul piano nazionale.
Ma se una persona è innocente fino a sentenza definitiva, ci si assuma l’onere di difenderla e di farla rimanere al proprio posto, si vada fino in fondo, sfidando, se necessario, anche l’impopolarità. Questo, noi illusi, ci saremmo aspettati da Renzi, che rimanesse coerente con i princìpi che ha professato.
La Barracciu, comunque, ha un motivo per consolarsi, visto che il premier-segretario l’ha pubblicamente elogiata apprezzandone il «gesto dignitoso». Maurizio Lupi fu invece costretto a dimettersi, per «opportunità» politica, pur non essendo indagato. E da palazzo Chigi non arrivò nemmeno una parola. Anche il silenzio avrà una sua logica, quella dei due pesi e delle due misure.