Per “Repubblica” Piccone è indagato ma le procure smentiscono
02 Marzo 2011
Il metodo “Repubblica” o del giornalismo “al condizionale” funziona così. Primo: si scrive una verità apodittica: ad esempio, il signor tizio è indagato (e quindi condannato ed esposto al pubblico ludibrio giacobino). Secondo: la notizia non deve necessariamente essere fondata sui fatti, ma occorre fidarsi di lor signori giornalisti d’assalto, ben informati e tutti d’ un pezzo. Che tanto poi, quand’anche la notizia in sé si rivelasse infondata che importa, chi si accorgerà del trafiletto di correzione, e tanto poi il danno personale, civile, politico sarà stato fatto. Cosi praticamente è successo in queste ore in Abruzzo.
Il sito Repubblica.it titola “il senatore Piccone (PdL) è indagato per camorra”, con l’accusa infamante di essere il referente locale in Abruzzo del clan dei casalesi (l’affermazione apodittica). E quindi si prosegue : il senatore Filippo Piccone, risulterebbe indagato, sembrerebbe esserci un indagine in corso, parrebbero esistere intercettazioni che lo coinvolgono. E via di questo passo (il condizionale). Neanche a dirlo, strilloni mediatici rilanciano e amplificano la ghiotta notizia, nel caso a qualcuno fosse sfuggita e la indignazione popolare non avesse potuto far conseguente giustizia. Ma il fatto è così grossolanamente incredibile che accade un fatto tutto sommato insolito: il presunto indagato, il condannato mediatico, replica fermamente parlando di invenzioni di sana pianta, e trova ascolto, tanto che gran parte della stampa locale ne prende atto correttamente. Persino la magistratura dice la sua.
Infatti le due procure che secondo il cronista senza macchia e senza paura “starebbero” indagando (ossia L’Aquila e Napoli) arrivano addirittura ad emettere due comunicati ufficiali con i quali smentiscono categoricamente l’esistenza di qualsivoglia indagine sul conto del senatore del PdL. In un paese mediamente civile seguirebbero pubbliche scuse alla vittima di quello che molti hanno riconosciuto essere stato un attentato mediatico, e magari anche una riflessione deontologica (e perche no, una tiratina d’orecchie, che una sanzione sarebbe inelegante e da paese dittatoriale) all’autore del presunto scoop. E invece…non solo non arrivano le scuse, ma si persevera col sistema “Repubblica” continuando a scrivere imperterriti che le inchieste ci sarebbero, dovrebbero arrivare documenti in merito.
Può darsi, d’altronde sono inchieste così segrete (blindate, le definisce il cronista in questione) che forse nemmeno gli inquirenti stessi ne sono a conoscenza. In tutto questo, il locale l’Ordine dei giornalisti che fa? Il suo mestiere: si mostra ancora una volta corporazione di parte e partigiana, limitandosi a dire che “per il senatore il diritto a difendersi è fuori discussione” (bontà loro, ma da cosa, se la notizia è infondata?) ma guai a criticare il prode giornalista che ha dato la notizia. Un copione già letto, e che forse non fa più nemmeno rabbia. Questo caso abruzzese, simile a tanti ma non per questo meno inquietante, deve semmai spingere a compiere passi di crescita anche nel campo del diritto.
Come è stato scritto più volte su questo giornale, una prima risposta può stare nell’assunzione diretta di responsabilità, elemento necessario allo sviluppo della libertà e della indipendenza. Se, come si ritiene, è auspicabile e urgente una seria introduzione della responsabilità civile diretta dei magistrati che sbagliano, altrettanto – riflettendo sul caso qui raccontato – diviene urgente operare in termini legislativi per definire meglio e tutelare davvero, secondo il migliore stile liberale ed anglosassone, sia la libertà di pensiero e di stampa, sia la onorabilità personale. Così da non consentire a priori al “quarto potere” di avere licenza di danneggiare impunemente il bene primario dell’onore, della reputazione, della immagine ed identità personali. Libertà e responsabilità di ciascuno, lo ripetiamo, si compensano e si esaltano a vicenda. L’una senza l’altra, invece, rischiano di divenire illusorie aspirazioni.