Per rifondare un rapporto tra politica e cultura in Italia il cattolicesimo non basta

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Per rifondare un rapporto tra politica e cultura in Italia il cattolicesimo non basta

14 Agosto 2009

Premetto che per me Silvio Berlusconi non è “l’amor nostro” e che il suo stile mi è assai poco congeniale, forse perché in molte cose sono rimasto un uomo del secolo scorso, un po’ bacchettone.
E tuttavia credo che gli Italiani debbano essergli grati: in primo luogo, per aver distrutto la ‘gioiosa macchina da guerra’ di Achille Ochetto; in secondo luogo, per il blocco antigramsciazionista che è riuscito a mettere in piedi; in terzo luogo, perché, oggi come oggi, è l’unico garante dell’unità d’Italia, se si considera che una sua eventuale ‘uscita di scena’, al Nord, dirotterebbe sulla Lega una preoccupante percentuale di voti PDL e che, con una Lega raddoppiata, la  ‘secessione’ potrebbe diventare, drammaticamente, un punto fondamentale nell’odg dell’agenda politica nazionale.

In un paese equivoco, come il nostro, in cui l’assistenzialismo pubblico ha prodotto una interpenetrazione tra ‘poteri forti’, sindacati, partiti di sinistra, consorterie culturali (in un senso lato che va dall’effettivo quarto potere esercitato, non certo in vista dell’interesse pubblico, dal clan Repubblica-Espresso all’occupazione ormai istituzionalizzata delle Università italiane); in cui su un quotidiano della borghesia si può leggere un’intera pagina di esaltazione del ’Manifesto’ e della sua presunta vocazione eretica e libertaria – senza che si dica una sola parola sulle battaglie fatte dal giornale di Pintor in difesa del totalitarismo movimentista di Mao e di Guevara contro il totalitarismo burocratizzato dei primi successori di Stalin; in cui, come ha osservato spiritosamente Giuliano Ferrara,  è vittima del moralismo della ‘nuova sinistra’ solo  il  libertino ‘etero’ (v. la vicenda – piuttosto squallida – di Pier Paolo Pasolini, che, quando non diventò  un caso di persecuzione di un intellettuale scomodo da parte del ‘sistema’, come insinuato da Paolo Volponi e da Laura Betti, venne riguardata come una ‘dolorosa contraddizione’..), il Cavaliere è davvero l’ultima spiaggia dell’esercito liberale in rotta e di un’opinione pubblica ragionevole che non ne può più della retorica antifascista, resistenziale e ‘liberalsocialista’ che imbelletta, dal tramonto politico di Alcide De Gasperi, tutti i più indecorosi compromessi di regime.

Riconosciuto il debito, va pur detto che la zattera di salvataggio– pur se destinata a galleggiare ancora a lungo nel ‘magno pelago’della crisi in corso– non è né una nave da crociera né un incrociatore di guerra. La sua è un’utile funzione di supplenza, terminata la quale, la democrazia liberale dovrà riprendere le sue funzioni che non consistono solo nell’assicurare le libertà politiche e civili nonché nel tenere a bada i suoi pochi nemici diretti e i suoi moltissimi avversari mascherati da amici (in Italia si ritengono liberali persino Stefano Rodotà e Adriano Prosperi!) ma, altresì, nel rendere possibile il dialogo e la ‘mediazione’ tra uno schieramento conservatore e uno progressista, entrambi ‘costituzionali’ e legittimati dalla più assoluta lealtà nei confronti della comunità politica in cui si confrontano, in vista del voto popolare, i loro diversi programmi di governo.

Il “partito liberale di massa”, diciamocelo francamente, non è nato e persino gli esponenti della vecchia Forza Italia che si erano battuti contro lo Stato (fiscale) criminogeno hanno riscoperto la giovanile ideologia “antimercatista” che li aveva portati nelle file del socialismo riformista. Il momento, riconosciamolo, è drammatico e forse val la pena di ricordare che  le politiche liberiste hanno come limite… l’ordine pubblico. Un milione di disoccupati, gettati sul lastrico dalla chiusura delle imprese, può sui tempi medi e lunghi rivitalizzare l’economia, ristabilire la concorrenza, risanare i bilanci dello Stato e degli enti pubblici. C’è, però, anche il problema di come tener buoni quanti hanno perso il loro lavoro, evitare proteste sociali e scioperi paralizzanti, assicurare un minimo vitale a chi ha moglie e figli da mantenere. Regalare alle vittime della recessione La ricchezza delle nazioni di Adam Smith o qualche dotta dissertazione di economisti contemporanei sui ‘cicli’economici  non è consigliabile e in ogni caso è di scarsissima utilità. E qui  si è costretti– e per non pochi liberali obtorto collo– a riconoscere la sia pur parziale validità delle obiezioni di Benedetto Croce ai liberisti puri– obiezioni che, in definitiva, non divergono poi tanto da quelle rivolte da Raymond Aron a Friedrich A. Hayek, anche se delle seconde si parla assai poco, per effetto di un vecchio provincialismo esterofilo per principio. Davanti alle difficoltà grandi come l’Everest causate dall’incertezza in cui è precipitato il mercato internazionale, non si può reagire solo a colpi di taglio dei rami secchi ma avvalendosi di un’arte di governo (arte di governo, non scienza di governo che esiste solo nella mente dei Simplicius di tutti i secoli) che metta in grado una classe dirigente liberale di non soffocare il mercato confinandolo in un vicolo cieco e, insieme, di far sentire ai concittadini meno agiati la solidarietà pubblica. Certo che non è facile ma è proprio questa difficoltà che rende il compito dello statista particolarmente complesso e delicato e che dovrebbe consigliare gli studiosi seri a starsene alla larga, memori di quanto dicevano i filosofi antichi che le qualità dell’atleta nel circo non sono le stesse dell’osservatore sugli spalti. E tuttavia, anche se è un artista e non uno scienziato, un uomo politico dovrebbe avere alle sue spalle qualcosa che vada ben al di là del suo pragmatismo obbligato: una visione del mondo, una ‘fede’, una ideologia, nel significato non marxiano del termine.

Che dietro Berlusconi non ci sia nulla di tutto ciò mi pare innegabile. Cercherò di dimostrarlo con qualche esempio tratto dall’esperienza della Prima Repubblica. Ho conosciuto, allora, non pochi militanti comunisti e democristiani onesti che, a ragione o a torto, si ritenevano vittima dei rispettivi partiti. Ciò che i comunisti dicevano della loro classe dirigente – della sua chiusura intellettuale, della sua obbedienza passiva a Mosca – era ogni volta oggetto di stupore. E lo stesso effetto producevano le accuse dei cattolici ai loro leader, rei di strumentalizzare chiesa e parrocchie per arricchire le loro famiglie e favorire gli amici e gli amici degli amici. In entrambi i casi, però, difficilmente si usciva dal partito, giacché dietro Palmiro Togliatti e Luigi Longo c’era l’Idea che non muore, c’erano l’ombra di Gramsci e “Avanti popolo alla riscossa!, e dietro Amintore Fanfani e Antonio Gava c’erano antiche solidarietà di credenti, c’erano le dottrine sociali della Chiesa, la nobile eredità di Luigi Sturzo e di De Gasperi. Si pensi per contrasto al folto gruppo delle presunte vittime di Forza Italia e del PDL, ai giornalisti, ai professori universitari, agli ex ministri e deputati, ai berlusconiani ‘ante marcia’  che non hanno più avuto, per un motivo o per l’altro, poltrone di prima fila e gratificazioni annesse (non solo simboliche, ovviamente). Ebbene anche costoro dicono peste e corna del capo e di quanti gli sono restati accanto – in certi casi, una eventuale intercettazione telefonica delle loro lamentele ci avrebbe riportato i peggiori giorni di Tangentopoli– ma se non se ne vanno, sbattendo la porta, entrano come i massoni ‘in sonno’, limitandosi a sfoghi virulenti tra amici fidati, in circoli culturali di nessun peso. La ragione per cui “non restano” dentro, a differenza di comunisti e democristiani d’antan, è evidente: perché dietro Berlusconi “non c’è niente”, c’è solo un “anti” sia pure  assai più utile dell’anti…fascismo.

Come ha scritto Ernesto Galli della Loggia, nell’editoriale Una politica senza cultura (‘Corriere della Sera’ 9 agosto 2009), la vicenda delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, ha mostrato inequivocabilmente che alla nostra classe politica, di destra o di sinistra, “manca un’idea, e dunque manca l’anima” ed è “perché vi manca un punto di vista, e cioè vi manca la cultura che è l’unica che in certe materie ne può fornire uno: in questo caso, un punto dio vista sull’Italia e sulla sua vicenda storica”. “Con la prima Repubblica– prosegue lo storico– le cose andavano in modo diverso: si pensi a cosa rappresentarono in quegli anni l’Istituto Gramsci, una rivista come ‘Mondoperaio’, edizioni come quella delle ‘Cinque Lune’ e dell’’Avanti’. Ma il forte rapporto allora esistente tra i vari partiti e la cultura |..| non basta a mascherare il dato che oggi ci appare più importante. Cioè che per tutti quei decenni il Paese e i governi che lo rappresentavano si astennero scrupolosamente, tuttavia, dal pensare che la dimensione della nazione e la sua vicenda storico-culturale meritassero di divenire oggetto di qualsiasi tematizzazione generale, di qualunque raffigurazione o progetto complessivi, di qualunque uso collettivo di cui potesse e dovesse farsi carico l’autorità pubblica”.

Galli della Loggia individua assai bene la ‘fenomenologia’ dell’Italia d’oggi ma  resta aperto il discorso sulla “eziologia”. E resta da spiegare, ad esempio, il curioso paradosso per cui la perdita di identità della comunità politica (della ‘nazione’), sui tempi lunghi, ha comportato anche quella dei partiti politici e dei loro eredi attuali (sia pure sotto altri nomi) che avrebbero dovuto invece essere i naturali beneficiari della ‘svendita dei valori’ operata da uno Stato, fin troppo ossessionato dal “fantasma del fascismo e del suo Minculpop”. Finito lo Stato nazionale – o comunque caduto in depressione mortale – si sono spappolate tutte le ideologie ottocentesche, che vi si davano contesa, sicché anche ‘sotto il vestito’ dei vecchi partiti, non solo sotto quello nuovo di zecca messo su da Berlusconi, ‘non c’è niente’: o, meglio, ci sono unicamente corposi e trasversali interessi di gruppi fermamente determinati a conservare il loro posto al sole. Sembra, quasi, riproporsi il copione seguito alla morte dell’impero: abbattuto il simbolo supremo della legittimità politica, gli attori politici in competizione vengono declassati a ‘signori della guerra’, in lotta per la divisione del bottino territoriale.

Sinceramente non ho la minima idea su come recuperare un rapporto vitale tra ‘politica e cultura’ e inoltre credo che tutto dipenda da fattori – soprattutto internazionali – che sfuggono al nostro controllo. Non ritengo, però, che rifondare il liberalismo su base cristiana e (tanto meno) cattolica porti molto lontano, a differenza di quel che pensano  amici (e stimati colleghi) come Marcello Pera e Gaetano Quagliariello. Richiamarsi al mio amato Alexis de Tocqueville o a Benjamin Constant– dei quali non finisco mai di mettere in luce, in polemica col superficiale laicismo, di cui s’è fatto banditore Massimo Teodori, la tensione e l’ispirazione religiosa– è operazione a freddo, ‘a tavolino’, come si diceva un tempo. Che, tra l’altro, potrebbe avere come conseguenza – e non certo positiva per il sistema politico italiano – non solo la rifondazione di una DC, sotto diversa denominazione, o la rovinosa competizione tra due partiti (UDC e PDL) per l’eredità sturzo-degasperiana, ma l’introduzione tra i militanti e gli elettori del centro-destra di un cleavage che tornerebbe a tutto vantaggio del centro-sinistra, fornendo a un moribondo una insperata bomboletta d’ossigeno. Al tempo della vicenda Englaro, che come tutti i grossi dilemmi etici non consentiva di dividere ragione e torto con un taglio netto – al di là delle strumentalizzazioni politiche, innegabili, vi erano ‘valori forti’ da una parte  e dall’altra -, non pochi elettori di Berlusconi (e ne so qualcosa) si chiesero perplessi:” ma per chi abbiamo votato se in una questione così grave non si consente a deputati, senatori, ministri neppure di votare secondo coscienza”.

No, se nel 150°anniversario dell’Unità, se Mazzini, Cattaneo, Cavour non parlano più al cuore delle masse, non si pensi di rifondare una solida identità nazionale, ispirandosi alle encicliche di Papa Woytila e a quelle di Papa Ratzinger, e semmai condita con l’ennesimo processo al Risorgimento (il cui nemico più implacabile, Pio IX, è stato beatificato dal pontefice polacco). La laicità per molti– anche per i cattolici alla Manzoni: il grande lombardo, come si sa, era un fautore di Roma capitale– fa parte di valori irrinunciabili che potrebbero indurre persino a reprimere certe ripugnanze politiche, qualora il PDL tendesse troppo la corda in questioni come l’aborto o la RU486. Irrinunciabile ‘zattera di salvataggio’, il centro-destra deve rimanere una federazione di diverse famiglie spirituali, ciascuna rispettosa della storia e della cultura delle altre. Fallito il progetto del partito liberale di massa non  ci si può certo illudere di sostituirlo col ‘partito liberalcattolico di massa’. E se anche ci si riuscisse non avremmo il superamento dell’antica frattura risorgimentale laici/cattolici ma una riaggregazione ideologica, che non rappresenterebbe nessun passo avanti nel superamento di una crisi che non è solo politica ed economica ma altresì culturale e come tale investe le eredità storiche e il loro significato nel presente.

Per molti liberali, compreso lo scrivente, nelle dottrine degli ultimi papi ci sono molti ‘elementi di liberalismo’, di cui essere loro grati, ma il liberalismo– piaccia o non piaccia– è altra cosa e, pur nel rispetto profondo dei credenti, non potrebbe mai consentire che quanti essi considerano (legittimamente) un peccato sia un reato per tutti. Solo un cattolico che considerasse l’aborto un male ma non pretendesse di criminalizzare “l’interruzione volontaria di gravidanza”–in certe condizioni drammatiche previste dalla legge, beninteso– sarebbe indistinguibile da un liberale. Il quale, a sua volta, non cesserebbe di essere tale, se, come Norberto Bobbio, si pronunciasse, in un nuovo referendum, contro la pratica abortiva in tutti i casi. Non mi sembra, però questo il pensiero dell’agenzia spirituale alla quale si vorrebbe legare il carro di un liberalismo rigenerato e… ribattezzato.