Per riformare il Paese il Cav. prepara la riforma dello Stato e quella del fisco
23 Febbraio 2011
Riformare il paese. Facile a dirsi, non a farsi. Il governo fa il suo mestiere ma il parlamento spesso e volentieri rallenta, talvolta ostacola o distrugge e la presidenza del Consiglio ha poteri limitati. L’obiettivo, insomma, non corrisponde agli strumenti per raggiungerlo, per questo è necessario rivedere l’architettura istituzionale. Agli stati generali di Roma torna il Berlusconi pragmatico, deciso a portare fino in fondo programma, governo e legislatura. I numeri a Montecitorio ci sono e da qui si riparte per la fase due: prima il federalismo che oggi ha ottenuto il via libera dal Senato (la prossima settimana approda alla Camera), poi la riforma delle riforme per rimettere in moto l’economica: quella fiscale. Messaggio agli imprenditori, Marcegaglia in testa, ma pure a tutte le Cassandre che lo davano ormai per spacciato, stretto nella morsa dei ribaltonisti e dei pm di Milano.
Usa una metafora per chiarire il concetto di fondo: “Ciò che il primo ministro e il suo governo concepiscono a Palazzo Chigi come un focoso destriero purosangue, quando esce dal Parlamento se va bene è un ippopotamo”. Da qui muove l’urgenza di una riforma istituzionale perché altrimenti “non c’è alcuna speranza” di cambiamento. E’ i n questo passaggio che si può cogliere un riferimento al nuovo stop che proprio ieri è arrivato dal Colle sul ricorso alla decretazione per i provvedimenti di legge (come nel caso del Milleproroghe considerato troppo eterogeneo e sul quale probabilmente verrà proposto un maxiemendamento correttivo e il voto di fiducia alla Camera) e al tempo stesso la conferma che adesso, superata la fase dell’empasse politico con gli effetti del ‘ciclone’ futurista (in tre mesi ridotto a poco più di un temporale), la maggioranza non intende perdere tempo sull’agenda delle riforme.
Berlusconi ripete che l’esecutivo e il presidente del Consiglio hanno poteri molto limitati specie in materia legislativa perché i testi licenziati da Palazzo Chigi devono superare il “vaglio e l’approvazione” prima del presidente della Repubblica, poi del Parlamento; il che significa tempi lunghissimi con in più il fatto che nei passaggi tra le due Camere subiscono “molti cambiamenti”. Idem per i decreti legge che “devono avere il consenso totale e quindi non sono nella disponibilità del governo”, senza contare poi l’intervento dell’Unione europea con norme che spesso configgono con quelle italiane. E’ per questo che davanti a imprenditori, amministratori pubblici e politici, il Cav., insiste su quella che considera l’unica via d’uscita per completare il cammino verso la modernizzazione del paese: una riforma istituzionale che assegni al premier maggiori poteri, peraltro come già è in democrazie quali la Germania e l’Inghilterra.
Per far questo auspica un confronto serio e costruttivo con l’opposizione ma se si guarda alle cronache politiche di questi giorni si comprende bene come il percorso che la maggioranza intende portare a compimento sarà tutto in salita, col fuoco di sbarramento di forze politiche che dal 14 dicembre scorso e nonostante la serie di debàcle incassate in Parlamento perseguono un solo obiettivo: cancellare il berlusconismo eliminando Berlusconi dalla scena politica.
C’è però un fatto oggettivo che solo alcuni mesi fa nel bel mezzo della ‘guerra’ futurista o terzopolista al Cav. era solo un auspicio: l’allargamento della base parlamentare. Ad oggi il centrodestra può contare su 320 deputati pronti a sostenere il governo e il numero – assicurano da via dell’Umiltà – è destinato a salire. Anche perché nessuno, al di là dei proclami, della propaganda e dei tentativi di spallate, vuole andare al voto: né il Pdl e la Lega che in questa fase hanno tutto l’interesse a realizzare il programma di governo e su questo a capitalizzare il massimo consenso elettorale, tantomeno il Pd incartato tra divisioni interne e il dilemma su dove e con chi andare (Vendola o Casini) e neppure il terzopolo ora che il leader Udc deve fare i conti con la diaspora finiana.
Nel giorno in cui il Cav. spinge sulle riforme, al Senato passa la risoluzione della maggioranza sul federalismo municipale, altro cardine del pacchetto sul quale gli elettori hanno dato la fiducia al centrodestra. Bossi esulta, Calderoli si augura che se “oggi a Palazzo Madama è andata bene, a Montecitorio vada benissimo” e Berlusconi la definisce “la riforma chiave per modernizzare il Paese” perché consentirà di aprire una fase “nuova per un cambiamento vero" in grado di "riformare lo Stato, facendo leva sul principio di responsabilità degli enti locali" e di contrastare il dilagare delle rendite di posizione e “del parassitismo”. Ma soprattutto il federalismo servirà a combattere l’evasione fiscale che in Italia supera i “120 miliardi di euro, contro i 20 miliardi della Francia”.
L’altro tema sul quale il Cav. insiste è la riforma fiscale, nodo strategico per agevolare la ripresa e ridare ossigeno al settore produttivo. Il primo start up sarà un codice delle norme fiscali che introduca e garantisca la semplificazione rispetto all’attuale giungla burocratica e legislativa che penalizza in particolare l’attività delle imprese. Ma il punto centrale è e resta la diminuzione della pressione fiscale: nonostante il vincolo del rigore sui conti pubblici e le ritrosie di Tremonti è questa la “rivoluzione liberale” sulla quale Berlusconi si gioca tutto, da qui al 2013. E forse anche dopo.
Dall’Italia al dramma della Libia e più in generale al quadro che si va delineando nel Magreb. Il Cav. si dice “molto preoccupato” per quanto sta accadendo a Tripoli ma rispetto alle dichiarazioni apparse alquanto incerte dei giorni scorsi e sulle quali si erano abbattute le polemiche dell’opposizione oggi Berlusconi sembra aver ritrovato il suo spirito neocon quando dice che “il vento della democrazia è soffiato in questi paesi, tanti giovani vogliono entrare nella modernità e armati del loro coraggio e di internet hanno dato via ai sommovimenti. Facciamo attenzione che non ci siano violenze ingiustificate e derive che recepiscano il fondamentalismo islamico”.
Un passaggio significativo che va oltre il realismo politico del ministro Frattini che solo due giorni fa aveva dichiarato che l’Unione europea non deve “interferire” sulle questioni libiche: “Non dobbiamo dare l’impressione di voler esportare la nostra democrazia. Dobbiamo sostenere la riconciliazione pacifica, questa è la strada” . Il timore del ministro degli esteri è che i regimi caduti in Nord Africa possano lasciare campo libero ai fondamentalisti islamici.
Timore condiviso dal premier ma le sue parole danno l’impressione che abbia ritrovato quell’idealismo democratico che durante la prima amministrazione Bush spinse l’Italia al fianco dell’America per rispondere alla minaccia del terrorismo islamico e liberare l’Afghanistan e l’Iraq dalle dittature laiche e religiose che li opprimevano.