Per rilanciare crescita e lavoro servono politiche mirate a far crescere la produttività

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Per rilanciare crescita e lavoro servono politiche mirate a far crescere la produttività

Per rilanciare crescita e lavoro servono politiche mirate a far crescere la produttività

24 Settembre 2012

In questi giorni il Governo ha ridotto a -2,4% la previsione di (de)crescita dell’economia italiana, confermando, così, tra le tante previsioni effettuate, quella recente del Centro studi della Confindustria, il quale ha stimato un dato negativo pari a – 0,3% nel 2013: un miglioramento, quindi, (più o meno in linea con le previsioni dell’Ocse) ma non ancora di segno positivo. 

Tale situazione, lo specchio di una crisi che dura da anni, ha prodotto dei riflessi pesanti sull’occupazione (il tasso di disoccupazione è ormai oltre il 10%). In pochi mesi si sono persi 500mila posti di lavoro. Nei primi anni della crisi a pagare il prezzo più alto erano stati i titolari di rapporti temporanei (e quindi i giovani) mentre la manodopera stabilizzata era stata interessata solo marginalmente (grazie al massiccio intervento degli ammortizzatori sociali predisposto dal Governo Berlusconi). Più recentemente è toccato anche ai lavoratori stabili. E ciò che è più preoccupante, in generale, riguarda, sul complesso dei <senza lavoro>, la quota dei c.d. disoccupati di lunga durata,  che da noi sono passati dal 45,7% del 2008 al 51,9% del 2011 (+6,2%) mentre in Germania sono diminuiti, nello stesso periodo, del 4,5% (da 52,5% a 48%).

Il trend italiano comunque non è molto diverso da quanto è avvenuto nella Ue (dal 37% al 42,9%: +5,9%). Alla base di tale situazione vi sono degli aspetti congiunturali. Le politiche di risanamento dei bilanci  (divenute indispensabili dopo che la crisi ha colpito la credibilità degli Stati e quindi la possibilità che i loro titoli pubblici fossero sottoscritti a tassi di interesse sostenibili) hanno finito non solo per impedire che le politiche pubbliche venissero in soccorso delle economie reali in difficoltà, ma anche per opprimerle con l’incremento della pressione fiscale, che da noi è arrivata al 45% (Giorgio Squinzi ha parlato addirittura del 55% sulle imprese) rispetto a previsioni che segnavano un 43,8% nel 2012 e nel 2013. La Confindustria, commentando questi scenari, ha evocato più volte l’immagine di una guerra. L’ultimo Rapporto ha persino paragonato la situazione del Paese a quella che seguì la fine della Grande guerra mondiale.

Se di terza guerra mondiale si deve parlare oggi, essa si combatte per l’intercettazione dei capitali finanziari che si spostano tra le diverse aree del mondo alla ricerca di rendimenti più convenienti. E a competere per la loro spartizione sono gli Stati con il loro debito sovrano. Nel  corso del 2012 i governi  devono prendere a prestito dai mercati in concorrenza tra loro e con gli investimenti nelle economie dei Paesi emergenti 11mila miliardi di dollari così distribuiti: 1,4mila miliardi L’Europa, 4,7mila miliardi gli Usa, 3mila miliardi il Giappone. Ciò senza calcolare l’ammontare delle obbligazioni bancarie. A inizio anno per l’Italia fu prevista, in euro, una spesa per interessi, nel  2012, in crescita del 21,9% (+8,4 miliardi), del 7,5% (+10,5 miliardi) nel 2013, del 4,3% (+11,3 miliardi) nel 2014. Probabilmente i tassi sono stati più contenuti rispetto alle previsioni, ma il problema rimane. La mole del debito e degli interessi – il cui corrispettivo in termini di liquidità è essenziale per la vita quotidiana delle nazioni – porta a contendersi le disponibilità finanziarie attraverso il tasso di interesse e la garanzia di solvibilità, due parametri che si tengono insieme in un rapporto inversamente proporzionale.

A fronte delle considerazioni fin qui svolte quali indicazioni si possono trarre per le politiche del lavoro? Occorre ammettere, innanzi tutto, che la scelta di porre la politica fiscale unicamente al servizio della stabilità monetaria e dei conti pubblici ha avuto conseguenze non solo sull’economia reale, ma anche sulle politiche del lavoro, dal momento che si è impedito che fossero attuate iniziative di carattere promozionale dell’occupazione attraverso una riduzione del cuneo fiscale e contributivo che invece è aumentato e che per talune categorie (collaboratori e partite Iva) è destinato ad aumentare ancora (fino al livello del 33% per quanto riguarda l’aliquota pensionistica). Ma alla base dei nostri handicap produttivi ed occupazionali vi sono dei limiti strutturali purtroppo consolidati.

In queste settimane il Governo ha posto alle parti sociali la questione di una maggiore produttività da raggiungere attraverso il negoziato e gli avvisi comuni (è importante l’accordo di rinnovo del contratto dei chimici sottoscritto in queste ultime ore senza una sola ora di sciopero e con contenuti molto innovativi). Era uno dei punti (b) della lettera della Bce del 5 agosto 2011, dove veniva individuato, come vettore di una maggiore produttività, lo sviluppo, in una logica addirittura prioritaria, della c.d. contrattazione di prossimità (ovvero a livello aziendale e territoriale) rispetto a quella di carattere nazionale.  Per tanti motivi che non riguardano soltanto l’organizzazione del lavoro e l’apporto dei lavoratori, l’Italia  si trova in una posizione svantaggiata rispetto ai Paesi con cui è in competizione. Se consideriamo le variazioni  % medie degli anni duemila possiamo notare un incremento di produttività del 5,2% negli Usa, del 3% nel Regno Unito, dell’1,8% in Germania, del 2,5% in Francia e solo dello 0,4% in Italia (un dato inferiore persino all’1,5% della Spagna). Diversamente, nello stesso periodo la variazioni % medie dei salari reali dell’industria hanno dato i seguenti riscontri: Usa +1,3%, Regno Unito +1,6%, Germania +0,5%, Francia +1,3%, Italia +0,9%. In sostanza, in Germania i salari reali sono cresciuti meno della produttività, da noi più del doppio.

Lo stesso discorso vale per il costo del lavoro che in Italia è aumentato un punto in più che in Germania (3,1% rispetto a 2,1%). Ma quello che è più significativo è il costo del lavoro per unità di prodotto (il Clup) nel settore manifatturiero (di cui è importante l’export in ragione della competitività), la cui variazione % media annua negli anni duemila è stata dello 0,2% in Germania, dello 0,6% in Francia e del 2,7% in Italia. Se poi consideriamo il Clup riferito all’intera economia otteniamo uno 0,4% della Germania contro un 2,6% del nostro Paese. Al dunque un differenziale di 2,2 punti che diventano 2,5 nel settore manifatturiero. In sostanza, si stima che l’Italia abbia  perso trenta punti di produttività rispetto alla Germania (che all’inizio del decennio era il <grande malato d’Europa> e che ha saputo farcela attraverso le riforme del welfare e del mercato del lavoro ed un modello di relazioni industriali che non si è sottratto ai sacrifici necessari).

Davanti a noi stanno sfide complesse: è in aumento (si veda l’ultimo Rapporto del Cnel sul mercato del lavoro) l’offerta di lavoro nel senso che più persone cercano un’occupazione, spinte dalle crescenti difficoltà economiche delle famiglie; è in atto una riduzione del numero dei pensionati ed una permanenza più lunga degli anziani nel mercato del lavoro per effetto delle riforme delle pensioni; cresceranno ancora i lavoratori immigrati, anche se i trend risentono della situazione di crisi. Basti pensare alla variazione % tra il 2008 e il 2011 che ha visto diminuire del 4,4% i lavoratori italiani (in valore assoluto -941mila) e crescere del 28,7%  quelli stranieri (+502mila). Da oggi al 2020 (la nuova data magica della Ue) l’offerta di lavoro crescerà, da noi, di 2,4 milioni (in prevalenza donne, anziani, giovani e immigrati). Ci sarà un aumento adeguato della domanda di lavoro? Ci sarà la capacità di accrescere la qualità del lavoro per renderlo appetibile ad una forza di lavoro intellettuale che non trova più sbocchi nella pubblica amministrazione, negli istituti di credito e che ne troverà sempre meno nell’industria la quale dovrà affrontare processi importanti di ristrutturazione? Ecco perché la sfida della produttività si tiene insieme con quella della competitività e della crescita.

Da subito occorre favorire la contrattazione decentrata con le misure di decontribuzione e di tassazione agevolata delle voci retributive rivolte ad incrementare la produttività, avvalendosi anche dell’articolo 8 della manovra estiva del 2011, voluto dal ministro Sacconi, che consente di conferire efficacia erga omnes agli accordi di prossimità anche in deroga alle norme di legge e di contratto nazionale. E’ l’unica maniera per orientare ed allocare le risorse laddove servono allo sviluppo, alla competitività e all’export, evitando invece di disperderle in erogazioni di carattere generale (come la detassazione della tredicesima mensilità).