Per risanare la politica ci vogliono lobbies trasparenti
23 Dicembre 2008
Troppo semplice dire: “Fuori i disonesti dal partito!”. Serve a prendere gli applausi dei ragazzi convocati per osannare il leader, non a risolvere i problemi. Ed è anche stucchevole sentir parlare di complotti e giustizia a orologeria, lo hanno fatto autorevoli esponenti democratici, quando le vicende giudiziarie del premier sono sempre sulla bocca di Veltroni.
Il punto è che la cosiddetta “questione morale” riguarda principalmente i rapporti tra le amministrazioni dove c’è sempre più potere decisionale, cioè la periferia, e gli imprenditori che fanno affari con la macchina pubblica. E l’ottanta per cento degli enti locali è in mano, in alcuni casi da decenni, al centrosinistra nelle sue varie forme (con o senza Di Pietro o nella formula Unione): inevitabile che a un certo punto una magistratura senza limiti abbia toccato anche questo santuario. Ma “cacciare i disonesti” è solo uno slogan a effetto che serve a fare i titoli dei telegiornali. Per carità, il malcostume in Italia esiste e secondo autorevoli studi e analisi sulla corruzione non è neppure in regresso.
Però non è un caso che nelle vicende più clamorose esplose in queste settimane in Abruzzo e in Campania passando per Firenze, non esistano “mazzette” e passaggi di denaro. Non ci sono valigette e conti all’estero. Questo per dire che il problema centrale resta, soprattutto in periferia, la mancanza in Italia di una legge che regoli l’attività di lobby a livello istituzionale. Perché il sindaco di Firenze è quasi costretto a nascondersi per incontrare il proprietario della maggior parte delle aree edificabili della sua città (Ligresti) e il patron della squadra di calcio (Della Valle)? Perché non ha diritto, dopo un confronto pubblico e limpido con i diretti interessati, a modificare i piani regolatori per costruire un nuovo stadio? Perché nessuno aveva mai sentito parlare fino a pochi giorni fa del ruolo dell’imprenditore napoletano Alfredo Romeo in tante realtà regionali e nazionali dove si giocano commesse milionarie?
E’ vero che i passaggi amministrativi in Italia sono estenuanti; va probabilmente modificata la legislazione sugli appalti che preferisce le offerte al ribasso, innescando paradossali aumenti dei costi in corso d’opera senza garantire che a vincere sia l’azienda più attrezzata (prendere esempio dalla Spagna dove non raramente prevalgono offerte anche superiori alla base d’asta perché il “curriculum” di un’impresa dà maggiori garanzie); e spesso le gare vengono disegnate per escludere o favorire il soggetto che ha lavorato meglio sottobanco. Ma è proprio qui il nodo da sciogliere. Questi rapporti che adesso sono sotterranei, opachi, in alcuni casi illeciti (come informare uno dei concorrenti su come verrà scritto l’appalto che lo riguarda) devono invece venire il più possibile allo scoperto con una legge, un provvedimento, un regolamento che li renda trasparenti e “ufficiali” sul modello anglosassone.
Insomma, nel caso di Pescara per esempio, Luciano D’Alfonso può benissimo farsi pagare viaggi, biglietti aerei e riunioni di partito dal concittadino Carlo Toto perché, come ha detto lui stesso, “gli amici mi hanno sempre fatto dei regali”. Ma quando lo stesso D’Alfonso diventa sindaco il rapporto si trasforma. Non è più quello tra due compaesani, ma tra un’istituzione e un uomo d’affari che ha pure diversi interessi sul territorio. E ogni trasferimento di soldi o altro andrebbe registrato pubblicamente.
Quando un imprenditore vuole incontrare gli amministratori, siano essi politici o funzionari, non dovrebbe farlo telefonicamente (e quasi clandestinamente, come avviene adesso) ma attraverso canali e procedure stabilite, sotto gli occhi dell’opinione pubblica che ha il diritto di conoscere quali sono gli interessi (legittimi) in gioco. Un ceto politico serio affronterebbe subito questo nodo. Invece Veltroni parla di morale e di onestà, belle ma inaferrabili categorie.