Per risollevare l’economia Obama dovrebbe anche ascoltare le critiche
20 Gennaio 2009
Tutto il marcio non è ancora emerso, ma si pensa già al futuro dell’economia mondiale. Barack Obama diventa ufficialmente il Presidente degli Stati Uniti d’America ed il primo problema che dovrà affrontare sarà una crisi economica che ogni giorno miete nuove vittime. Nonostante la schiacciante vittoria elettorale, non mancano le critiche in merito alle politiche economiche anticipate da Presidente. Critiche che, tuttavia, sembrano essere trasversali.
L’idea per far ripartire l’economia americana prende il nome di American Recovery and Reinvestment Plan (ARRP) e si prefigge l’ambizioso obiettivo di investire oltre 800 miliardi di dollari nei prossimi due anni. Incentivi energetici, taglio del cuneo fiscale per le imprese, taglio delle tasse per il 95% dei cittadini, nuove risorse per gli investimenti: sono queste in sostanza le tre grosse linee guida del piano, che arriva in un momento poco felice. Il debito pubblico a stelle e strisce è spiccato verso un nuovo picco, 1.180 miliardi di dollari, secondo i dati forniti dall’ufficio contabilità del Congresso ai primi di gennaio. Ma di questo sembra che nessuno se ne curi, dato che non bastava l’ormai celebre Troubled Assets Relief Program (TARP), anche noto come Piano Paulson. No, perché il virus dei subprime si è trasferito in fretta dal mondo finanziario a quello industriale. Eppure sono numerose le voci che giudicano negativamente il Piano Obama. Da Newsweek al New York Times, sono stati numerosi i columnist che hanno criticato Lawrence Summers, consulente economico del neo presidente e fra gli artefici dell’ARRP.
Le misure che Barack Obama ha già anticipato agli americani non basteranno, secondo Ben Bernanke. «Serve una spinta significativa, il piano forse non sarà sufficiente per far ripartire gli Stati Uniti» ha detto il numero uno della Federal Reserve presso la LSE, prestigiosa business school londinese. Il pesante monito arriva proprio dopo l’arrivo di due dati molto importanti circa lo stato di salute dell’economia statunitense. La settimana scorsa il Dipartimento del Lavoro ha diramato le cifre sull’ecatombe del mercato occupazionale negli Usa: nel 2008 sono stati persi oltre 2,6 milioni di posti di lavoro, di cui 584mila in novembre e 524mila in dicembre. La stampa internazionale ha immediatamente definito questo risultato come «il peggiore dalla fine della Seconda Guerra Mondiale», facendo riferimento al tasso di disoccupazione giunto al 7,2%. Ma c’è anche un’altra variabile che ha indotto Bernanke a pensare che Obama dovrà osare di più, senza peraltro aumentare di troppo la spesa pubblica. I conti americani, infatti, hanno subito un’impennata senza precedenti, tale da giustificare un cauto allarmismo per il futuro. Per il primo trimestre fiscale del 2009 il deficit federale ha superato quota 485 miliardi di dollari, una cifra notevole, specie considerando che nel 2008 il disavanzo totale è stato di 454 miliardi. Anche sul fronte della bilancia commerciale, le cose non vanno bene: il deficit di novembre resta molto elevato, circa 40 miliardi di dollari, ma appare in ripresa rispetto al dato precedente, oltre 55 miliardi.
In questo quadro ben poco roseo, Barack Obama ha deciso di alimentare la ripresa economica attraverso tagli fiscali e supporto al sistema finanziario. Le critiche sulla reale efficacia di tali misure sono molte ed autorevoli. Il recente Nobel per l’economia, Paul Krugman, ha espresso tutti i suoi dubbi dalle colonne del New York Times. Krugman afferma che «in questo momento siamo di fronte a due significativi squilibri economici: lo squilibrio tra il potenziale dell’economia e la sua probabile prestazione, e lo squilibrio tra la severa retorica economica di Obama ed il suo piano un po’ deludente». Uno dei pochi che ha manifestato una certa soddisfazione per la politica che Obama varerà d’ora in poi è il Segretario al Tesoro uscente, Henry Paulson, che ha definito «consistente e pieno di buone proposte» il pacchetto di azioni decise dall’ex senatore dell’Illinois. Evidente che l’assonanza delle cifre spese dall’uno e dall’altro li abbia resi molto affini.
Ciò che fa riflettere è che Obama, appena eletto, non esitò a giustificarsi per tutte le scelte impopolari che avrebbe preso in virtù dell’eccezionalità della crisi finanziaria. Quello che è certamente vero è che un riassetto del sistema, dopo una crisi, è necessario come l’ossigeno. Il 23 settembre scorso è scomparso un mondo, quello delle banche d’affari statunitensi, con la richiesta (accolta, peraltro) di due colossi dell’investment banking a stelle e strisce come Goldman Sachs e Morgan Stanley di poter cambiar la propria natura, divenendo banche commerciali. Sono stati spesi miliardi su miliardi, anche sotto forma di liquidità, per far fronte a default sempre più frequenti. I Fed Funds hanno raggiunto il minimo storico ed il Dow Jones è stabilmente sotto i 9mila punti. Più di due milioni e mezzo di posti di lavoro sono stati persi ed un certo modo di intendere l’autoveicolo è stato quasi cancellato. Per contrastare un evento così distruttivo ed imponente servono misure pesanti ed efficaci. V’era un sinistro sentore di inconsistenza riguardo il programma economico di Obama durante la campagna elettorale ed ora questa semplice intuizione si sta trasformando in realtà.
Numerosi storici e politologi hanno paragonato Barack Obama a John Fitzgerald Kennedy. Nell’ars oratoria il presidente eletto eccelle senza riserve, ma in campo economico, lui ed il suo staff sapranno ridare una forma agli Stati Uniti?