Per salvare la Giustizia non serve una rivoluzione ma poche, incisive riforme
11 Giugno 2009
L’intervento pronunciato il 9 giugno dal Presidente della Repubblica innanzi al Csm non contiene solamente una aperta critica al protagonismo di alcuni pubblici ministeri. Evidenzia soprattutto i molteplici aspetti di una crisi della giustizia divenuta ormai gravissima, appellandosi ai magistrati perché contribuiscano, concretamente, al recupero di efficienza del sistema e a quello del loro stesso prestigio.
Per raggiungere questi obiettivi, il Presidente della Repubblica traccia un percorso di riforma e di riflessione, che muove proprio dal Consiglio Superiore della Magistratura e dalla necessità di riaffermare rigore, misura, obbiettività e imparzialità come criteri di esercizio delle sue funzioni.
Non criteri politici, non logiche correntizie, ma solo l’esame attento e scrupoloso delle vicende e la loro valutazione in termini di assoluta obbiettività ed imparzialità dovrebbero costituire la stella polare dell’organismo di autogoverno. Il che, a ben pensarci, dovrebbe essere facile, anzi naturale, per chi ha svolto funzioni giurisdizionali sino al momento dell’elezione a componente del Csm.
La realtà è che il Consiglio Superiore della Magistratura, al di là delle vocazioni e capacità individuali, rappresenta il frutto di una elaborazione costituzionale estremamente complessa, volta a scongiurare il rischio, mai totalmente fugato, che esso possa assumere i caratteri di una “cometa capace di uscire per conto suo dall’orbita costituzionale" (l’espressione è di Calamandrei).
E non è affatto singolare, ma solo sintomo evidente della crisi, il fatto che oggi vengano riproposte da alcuni partiti politici soluzioni, come quella dell’elettività dei magistrati, che durante i lavori della Costituente vennero sostenute con vigore da esponenti del partito comunista. Basterebbe ricordare a questo proposito un celebre intervento dell’Onorevole Terracini che, durante l’adunanza plenaria della Commissione dei 75, affermò a chiare lettere che "sarebbe stato lieto se avesse potuto ottenere che almeno per i primi gradi della Magistratura si fosse introdotto il principio elettivo”.
In realtà, una soluzione del genere, adottata oggi, renderebbe ancora più problematico il rapporto tra magistratura e politica, rischiando di determinare “l’istituzionalizzazione” di un cursus honorum avente come suo punto di partenza l’elezione alla carica di magistrato e come suo punto di arrivo l’ingresso in Parlamento e nel Governo.
Tornare alla Costituzione e ai suoi intenti originari non è, tuttavia, impossibile. E il senso complessivo dell’intervento del Presidente della Repubblica è forse proprio questo.
La riforma costituzionale della magistratura e della giustizia è certamente legittima e possibile, ma operarla in modo che non turbi i complessivi equilibri costituzionali non è sicuramente facile.
Anche l’approccio oggi in voga non è forse quello più corretto. Viene in mente la critica operata da un grande pensatore liberale, Karl Popper, a quell’approccio metodologico irrazionale, “olistico”, che, prescindendo dalle peculiarità dell’oggetto da riformare, ne impone la considerazione e la modifica integrale e che quasi sempre rende impossibile la concreta soluzione dei problemi che si vorrebbero risolvere, facendone sorgere anzi dei nuovi. L’alternativa a questo modo di procedere è, secondo il filosofo austriaco, la cd. «ingegneria sociale gradualistica», che presuppone l’identificazione e la chiara enunciazione del problema che si intende affrontare ed in cui la soluzione proposta non è mai presa in astratto ed una volta per tutte, dovendo sempre tenere conto delle dinamiche della realtà e dei problemi, spesso imprevedibili, scaturenti dalla sua applicazione.
Sarebbe possibile un’«ingegneria sociale gradualistica» anche nel settore della giustizia? Certamente sarebbe auspicabile e, probabilmente, anche foriera di risultati.
La riforma del sistema di accesso in magistratura ordinaria, in modo da assicurare l’assoluta eccellenza dei vincitori, la partecipazione più ampia dei magistrati all’organismo di autogoverno, accompagnata da una esenzione solo parziale dalle funzioni giudiziarie, per scongiurare la creazione di caste e carriere parallele all’interno della categoria, sono riforme semplici, ma che possono essere più efficaci di rivolgimenti costituzionali.
Soprattutto se si comprende che oggi il magistrato protagonista delle cronache e dei salotti televisivi, non è malato tanto di ideologia, quanto di qualunquismo.
*Stefano Amore è vice-Segretario di Magistratura Indipendente.