Per sconfiggere l’islamismo, Israele deve distinguere Gaza dalla West Bank

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Per sconfiggere l’islamismo, Israele deve distinguere Gaza dalla West Bank

17 Febbraio 2009

Il conflitto che oppone Israele e i palestinesi sta vivendo ormai da tempo una continua alternanza fra il ricorso alla violenza e uno sterile congelamento, che i negoziati di Annapolis non hanno saputo sbloccare. L’attore che oggi sembra rendere più difficile una sua risoluzione è proprio Hamas. Esiste infatti un’equazione rigida tra i valori del fondamentalismo islamico e l’obiettivo genocida di voler “cacciare” gli ebrei dal Medio-Oriente.

Anche in passato, questo è stato il motivo principale che ha fatto degenerare il conflitto in violenza. La guerra del ’67 arrivò qualche anno dopo l’emanazione dello statuto di Fatah in cui si esplicitava che la distruzione dello stato di Israele era l’obiettivo di quella organizzazione. Anche prima del recente attacco a Gaza, i leader di Hamas hanno più volte ribadito l’opzione genocida. Non a caso, Hamas nel recente passato è entrato in guerra anche con l’Olp, che invece ha abbandonato tale obiettivo manicheo. Questo conflitto interno agli attori palestinesi è stato risolto con uno scambio; Gaza è oggi controllata da Hamas e la Cisgiordania (in gran parte) dall’Olp di Abu Mazen.

Partendo da questi dati empirici, e lasciando da parte il giudizio di valore su chi abbia torto o ragione – e se sia legittimo o meno, sproporzionato o razionale, il ricorso alla violenza –, occorre chiedersi quale possa essere uno scenario, il più possibile equo e fattibile, di risoluzione del conflitto, e che possa servire anche a minimizzare la violenza. Si è ripetuto spesso che tale conflitto non potrà essere risolto dall’oggi al domani, e che è auspicabile una strategia “a tappe”, anche sull’esempio del recente passato (accordo firmato ad Oslo, e fallito invece a Camp David II…). A lungo si è dibattuto sull’opportunità di una pace dissociativa (con l’indipendenza palestinese a Gaza e Cisgiordania) o associativa (uno stato pluri/nazionale, e laico). Forse, è possibile ricercare il tertium datur, cioè una tappa intermedia, senza dover per forza definire il punto di arrivo finale.

Nel breve periodo, sembra cioè auspicabile l’indipendenza solo della Cisgiordania, con il congelamento dello statuto di autonomia amministrativa a Gaza, attuato dopo l’accordo di Oslo, e tutelato dalla (legittima) costruzione del muro a difesa del territorio di Israele. Ulteriori scambi potrebbero essere realizzati (grazie a un suggerimento dell’Arabia Saudita) fra terre della West Bank ad alto insediamento ebraico e zone poco popolate di Israele pre-’67 da attribuire alla Palestina; sarebbe utile anche qualche concessione (di terre) da parte dei paesi arabi vicini. La partita più difficile sarà la gestione dei coloni ebrei che vivono nella West Bank; è auspicabile che la tutela della loro sicurezza sia garantita congiuntamente dall’Autorità Palestinese e Israele.

L’ipotesi alla base di questo progetto è che soltanto la differenziazione fra sanzioni negative (a Gaza controllata da Hamas) e positive (nella Cisgiordania gestita dall’Olp) possa sviluppare un processo di apprendimento virtuoso nella regione (Hezbollah inclusi), e delegittimare il fondamentalismo islamico. Se Israele continuerà ad applicare solo sanzioni negative di tipo violento, perlomeno dopo Oslo, il processo di mobilitazione dei promotori di un secondo genocidio degli ebrei continuerà forse ad avere successo. La concessione dell’indipendenza alla Cisgiordania potrebbe anche mutare i risultati delle future elezioni nei territori Palestinesi, indebolendo Hamas. Gli elettori potranno in futuro premiare le forze politiche capaci di promuovere la pace. In questi ultimi anni, l’Olp ha perso legittimità soprattutto perché i negoziati con Israele non hanno prodotto più risultati positivi dopo Oslo; il calo di consenso per le accuse di corruzione potrebbe quindi essere ridimensionato. 

Per poter realizzare questo scenario, c’è naturalmente bisogno di uno sforzo diplomatico degli attori esterni: sia nella direzione dei Palestinesi che di Israele. Per ciò che riguarda il dialogo con quest’ultimo, è naturale pensare agli Stati Uniti, che hanno sempre avuto un forte co-ordinamento in politica estera con Israele. In molti sperano in Obama, ed è probabile che il nuovo presidente degli Stati uniti farà qualche sforzo per favorire il raggiungimento di un accordo. Le difficoltà che ha avuto il processo di pace dopo Oslo mostra però che la mediazione soltanto degli Usa non sembra sufficiente. Questo scenario è sponsorizzato da tutti quelli che ritengono che “conti solo il potere”, e che ipotizzano che gli Usa siano la nuova potenza egemone della politica mondiale. In realtà, non sembra che gli Usa abbiano poi tutto quel potere, e non solo per l’instabilità di Afghanistan e Iraq. Anche nel loro “cortile”, sopravvivono regimi autoritari come la Cuba di Castro e semi-dittatoriali come il Venezuela di Chavez.

Di conseguenza, sembra che si possa arrivare ad un qualche accordo di pace, solo se la mediazione sarà condotta anche dai governi europei, molti dei quali sono sempre stati più vicini ai Palestinesi. Sinora, questa preferenza latente non si è mai tradotta in una mediazione efficace. Dopo il ‘45, e soprattutto dopo il ’56, l’Europa si è segnalata per la sua evidente (e sconfortante) assenza in politica estera: una sorta di “impotenza civile”. Non si può chiedere all’Unione di attivarsi militarmente, perché non ci sono le risorse economiche per farlo; il politologo Moravcsik ha sostenuto che, per avere delle forze armate efficienti, l’Europa dovrebbe quasi smantellare il proprio welfare state. Partendo da tali premesse, è naturale che i vari governi europei invochino solo la fine della violenza: i “cessate il fuoco”.

Si tratta purtroppo di un esercizio diplomatico sterile, frutto di un buonismo post-moderno, che si fonda sull’incapacità di analizzare e (di conseguenza) saper influenzare i conflitti. I soliti “tifosi” del potere scuoterebbero la testa con saccenza e cinismo, e finirebbero per dubitare fortemente che in futuro l’Unione Europea possa avere una politica estera comune. Ma non è affatto detto che ci sia bisogno di una diplomazia unitaria, che allo stato attuale delle cose sembra difficile da realizzare. L’UE dovrebbe soltanto sforzarsi di mediare, insieme agli Usa; i singoli stati potranno cioè proporre diverse terapie al conflitto fra Israele e i Palestinesi (o ad altri conflitti), ma l’importante è che si sforzino di promuovere insieme il superamento delle incompatibilità. Fra i mediatori, non sembrano poter rientrare (infine) i governi arabi moderati; sotto il ricatto del fondamentalismo islamico, essi hanno scarsi margini di azione.

Quali passi intermedi dovrebbero fare i governi europei (filo/Palestinesi) per aspirare a giocare un ruolo di mediatori insieme agli Usa (filo/Israeliani)? Primo, devono rendersi conto che Hamas è un attore politico che va delegittimato finché non abbandona i valori fondamentalisti e le finalità genocide, che vi sono indissolubilmente collegate. Nelle costituzioni democratiche liberali, gli attori intolleranti (come i partiti neo-fascisti o neo-comunisti) non sono legittimati a partecipare alle elezioni. Chi non accetta il diritto degli altri ad “esistere”, non può essere ammesso al voto, soprattutto se rischia di vincere le elezioni.

Lo stesso vale per i negoziati; va applicata una “conventio ad excludendum” per chi incita al genocidio. Secondo, l’UE deve rendersi conto che la minaccia del fondamentalismo islamico è forte in politica interna (sul fronte dell’immigrazione) ed internazionale (vedi attentati di Madrid e Londra). Tale minaccia non potrà essere fronteggiata con le timidezze politically correct della sinistra, o l’immobilismo passatista della destra conservatrice, ma grazie ad una diplomazia che miri a coniugare il perseguimento egoistico dei propri interessi (difendersi dalle minacce esterne) e la tutela altruistica di valori universali (risolvere i conflitti in modo equo).

Lo sforzo diplomatico finalizzato a premiare gli attori Palestinesi moderati (l’Olp di Abu Mazen) e a risolvere il conflitto (intanto) in Cisgiordania, sembra essere il primo (ed unico) passo fattibile, per sperare di indebolire un domani i promotori del fondamentalismo: si chiamino Hamas, Hezbollah, al Qaeda, Talebani… La legittimità degli attori islamici moderati potrebbe essere rafforzata, se sarà dato loro “un argomento”, e cioè l’indipendenza concessa soltanto a quei Palestinesi che hanno rifiutato l’ideologia fondamentalista di Hamas. La speranza è che si possa consolidare un gioco a somma positiva, dove tutti ci possano guadagnare: Stati uniti ed Europa, Israele, Palestinesi e gli esponenti della civilizzazione islamica a qualsiasi latitudine.