Per sfuggire al potere dei partiti c’è un solo modo: il presidenzialismo

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Per sfuggire al potere dei partiti c’è un solo modo: il presidenzialismo

08 Febbraio 2011

La battuta d’arresto della legge sul federalismo si può spiegare in prima istanza con un insieme di circostanze congiunturali. Anzitutto va considerata la volontà dei finiani di mettere in difficoltà il governo. E occorre dire che al terzo o quarto tentativo ci sono, almeno parzialmente, riusciti. Va poi messa nel conto la difficile situazione in cui si trova il presidente Napolitano. Da un lato egli interpreta con grande senso della misura il suo ruolo di garante della contesa politica. Da un altro versante, però, la scarsa incisività dei Ds finisce con il caricare di significato politico alcune sue scelte. In tal senso si può interpretare anche il puntiglio, forse eccessivo, mostrato in questa circostanza. Tuttavia se il combinato disposto di questi fattori spiega in gran parte gli ultimi avvenimenti, la mancata approvazione da parte della bicameralina ha messo in luce anche quello che  si può definire un difetto congenito nell’azione politica della Lega.

Mesi fa Ernesto Galli della Loggia metteva giustamente in evidenza come la Lega esprimesse "la prima cultura politica italiana di segno ‘basso’, che non nasce dall’elaborazione di un’élite". Nel caso della Lega, a suo avviso, "abbiamo un gruppo dirigente fatto della stessa identica pasta culturale e antropologica del suo elettorato, un gruppo dirigente che ha gusti, modi di vita, ragiona e parla come il suo ‘popolo’". A complemento di questa analisi, che coglie in modo puntuale un carattere di novità del leghismo, occorre aggiungere che questa espressione di istanze popolari avviene con modalità e con pratiche che sono intrinsecamente partitocratiche. In altri termini, alla trasparenza sociologica della Lega corrisponde una sostanziale arretratezza politica, che riproduce i peggiori stilemi della Prima Repubblica. Per intendere il senso di queste osservazioni basterà fare due esempi. Il primo relativo all’ambito politico partitico e il secondo a quello istituzionale.

Quando nel 2005 Berlusconi ventilò per la prima volta l’idea di un partito unico del centro destra, il suo appello era rivolto anche al movimento di Bossi. La sua era una proposta che nasceva dall’esperienza pratica. Per superare le molte difficoltà che avevano intralciato l’azione di governo durante la legislatura, occorreva sciogliere in un più grande contenitore le varie componenti di quello che fino ad allora era stato un cartello elettorale di successo. La Lega non solo rifiutò energicamente la proposta, ma nella fase successiva, che vide la nascita del PdL, irrise in modo sguaiato al progetto politico dall’alto del proprio insediamento sociale. Il nuovo partito nacque perciò in parte squilibrato, con al fianco un fedele alleato che faceva pesare quotidianamente il proprio ruolo di "ago della bilancia". Tale situazione spiega anche, almeno in parte, l’atteggiamento di Fini, così come rende ragione delle permanente pulsione centrifuga (il partito del sud, la lega meridionale e altre spiacevoli amenità) che incombe sul sistema politico.

Un discorso del tutto analogo si può fare per le riforme istituzionali. Il partito di Bossi ha messo al primo posto della sua agenda politica il federalismo. A tal proposito non conta troppo rilevare, come pure si potrebbe, che la proposta leghista più che una redistribuzione dei poteri suppone una redistribuzione dei pesi economici. Un obiettivo che si sarebbe potuto perseguire con altrettanta efficacia con una seria politica di liberalizzazioni.

Quello che vale considerare in questa sede è che tale insistita rivendicazione è avvenuta in maniera acefala. Alla redistribuzione dei poteri in ambito locale, infatti, non corrisponde un rafforzamento del governo nazionale in grado di metterlo al riparo da imboscate parlamentari e ricatti di minoranze. Poste simili premesse è logico che un federalismo senza quel tanto di presidenzialismo necessario a riequilibrarlo venga vissuto da una parte consistente dell’opinione come una misura punitiva. Un timore non infondato se si considera che per sostenere la competizione economica internazionale occorre rafforzare il sistema Italia, anche nei suoi profili costituzionali.

In conclusione, è praticamente certo che, al di là di qualche incidente di percorso, il federalismo andrà in porto. Tuttavia è bene tenere a mente che senza una iniezione di presidenzialismo l’ipoteca partitocratica che la Lega fa pesare sul governo rischia di compromettere non solo l’efficienza del centro destra, ma anche la funzionalità presente e futura del sistema.