Per sottrarre la politica al potere dei giudici serve l’immunità parlamentare
09 Ottobre 2009
Non sono un giurista, quindi, mi astengo dal commentare la sentenza della Corte costituzionale sul lodo Alfano. Sentenza che, peraltro, su queste colonne è stata oggetto di analisi esaurienti sotto vari profili. Conviene invece svolgere, a partire dalla decisione della Corte, alcune considerazioni di ordine politico generale, che tengano però d’occhio lo stato di salute della transizione, cioè del riassetto del sistema politico come una compiuta democrazia governante (sanamente conflittuale, rispettosa del principio di responsabilità politica, incentrata sulla nomina popolare del governo).
Non è opportuno riproporre sic et simpliciter il Lodo Alfano sotto forma di legge costituzionale. Dati i tempi lunghi richiesti da questa operazione, nonché l’auspicabile coinvolgimento dell’opposizione, conviene semmai reintrodurre l’immunità parlamentare come fissata nel testo originario della costituzione, nel solco delle più nobili tradizioni della democrazia parlamentare. Un istituto, ricordiamolo, che per oltre quarant’anni ha garantito tutti gli eletti del popolo (di maggioranza come di opposizione) e non solo alcune cariche istituzionali. Questa scelta appare preferibile sotto diversi profili. In primo luogo essa segnerebbe la fine delle accuse di favoritismo. Con il ritorno dell’immunità per l’insieme degli eletti cadrebbero tutte le stucchevoli polemiche sui provvedimenti tagliati su misura o sulle leggi pensate apposta per Berlusconi, che hanno funestato la discussione pubblica di questi anni.
In secondo luogo, il ripristino dell’immunità segnerebbe uno spartiacque decisivo nei rapporti tra politica e magistratura. Com’è noto, l’immunità venne abolita nel 1993, quando l’intero mondo politico si sentiva privo di legittimazione. Fu una sorta di autodafè collettivo in omaggio al moralismo isterico che imperava in quei mesi. Adesso, quando è ampiamente diffusa una lettura più sobria e meno emotiva di quella stagione, si può e si deve tornare indietro. L’abolizione dell’immunità ha posto l’intero ceto politico sotto la tutela, quando non sotto il ricatto, di quella parte della magistratura che è ammalata di protagonismo. Un condizione nefasta cui è doveroso sottrarsi. Ripristinare il vecchio istituto di garanzia avrebbe un effetto naturale di marginalizzazione dei settori politicizzati dell’ordine giudiziario. Esso, poi, migliorerebbe anche i rapporti con l’opposizione. In questi anni, infatti, proprio la mancata soluzione del rapporto politica/magistratura ha costituito uno dei maggiori ostacoli a un approccio bipartisan alle necessarie riforme della costituzione.
Naturalmente, questo ragionamento sconta una difficoltà che non è solo procedurale. L’iter di una legge costituzionale è lungo. Probabilmente sarebbe stato meglio cominciarlo prima, magari in contemporanea con il varo del lodo Alfano. Tuttavia la strada per quanto in salita è ancora percorribile.
In un’ottica attenta alla transizione vanno poi considerate le ricadute politiche a breve della sentenza. Non mi riferisco alle polemiche di questi giorni, che occorre ridimensionare (ma anche contestualizzare come una comprensibile reazione emotiva), bensì all’atteggiamento da tenere nei prossimi mesi per assicurare la durata e la tenuta del governo.
Si è detto da più parti, nel centro destra, che le elezioni regionali del prossimo marzo saranno il banco di prova del governo e della popolarità di Berlusconi. Si tratta di un ragionamento che appartiene al politico di mestiere, pronto a parare i colpi e a fissare obiettivi e scadenze ravvicinate. Pure, si tratta di un obiettivo che è contraddittorio con l’auspicio di una definitiva normalizzazione del sistema politico. In una democrazia governante a contare davvero sono solo le elezioni politiche. Le altre consultazioni hanno un carattere del tutto diverso, perché investono arene nelle quali valgono differenti criteri di giudizio. Per puntare sulle regionali si dovrà politicizzare un’elezione locale nella quale l’elettore dovrebbe regolarsi guardando alla capacità dei suoi amministratori regionali e all’ambito istituzionale in cui si troveranno ad agire. Occorrerà, insomma, rinunciare a quella articolazione di piani che è la ricchezza di una democrazia matura. In sostanza passo indietro nella prassi democratica. Un passo forse inevitabile, ma che rende ancora più pressante la necessità di chiudere, entro questa legislatura, il cerchio della transizione.