Per superare il giustizialismo la sinistra dovrebbe “dimenticare Berlinguer”

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Per superare il giustizialismo la sinistra dovrebbe “dimenticare Berlinguer”

01 Gennaio 2012

Habent sua fata libelli. La verità di questo motto latino resta intatta anche se il libro all’origine non esiste ma è una compilazione successiva. Il 28 luglio 1981 sul quotidiano Repubblica viene pubblicata un’intervista sulla "questione morale", che il segretario del PCI, Enrico Berlinguer, ha rilasciato al direttore Eugenio Scalfari. Questo testo segna una svolta politica. Il Partito comunista italiano abbandona definitivamente la linea del compromesso storico e sceglie la strada della contrapposizione frontale. Nel prendere tale iniziativa, però, il segretario comunista non indica un credibile programma di governo (politica economica, estera, etc.), ma imbocca con decisione la strada della denuncia etica.

Secondo Berlinguer il partito comunista andava preferito non tanto per le proposte politiche di cui era fautore, ma perché portatore di una più severa moralità, rispetto al degradato costume dei partiti di governo. Adesso, a distanza di trenta anni dalla sua pubblicazione, il testo di quell’intervista è diventata un libretto (Eugenio Scalfari intervista Enrico Berlinguer, La questione morale, Roma, Aliberti, 2011, € 6,50). L’intervista non viene riproposta a fini documentari, per contestualizzarla e intenderla storicamente come una testimonianza significativa di un determinato periodo, bensì per perseguire un preciso obiettivo politico attuale: fornire i quarti di nobiltà a quello che si può chiamare il "partito delle manette". La prefazione è firmata, infatti, da Luca Telese un giornalista del Fatto quotidiano, la testata giustizialista che ogni giorno porta il suo contributo all’avvelenamento del dibattito politico.

Telese rivendica la genealogia ideale tra la questione morale berlingueriana e le posizioni antipolitiche del suo giornale e dell’area di opinione che in esso si riconosce. Tale rivendicazione è pienamente legittima, perché nell’intervista troviamo una sostanziale abdicazione alla politica come arte di combinare passioni e interessi in una sintesi credibile, per far luogo all’invettiva moralistica. Certo, la distanza tra la posizione espressa a suo tempo da Berlinguer e l’integralismo giudiziario degli amanuensi di atti processuali che animano le colonne del foglio travagliesco non è poca, tuttavia è indubbio che tra di esse esista una discendenza, più o meno mediata. Così come è certo che un decisivo elemento di raccordo sia stato offerto dal giornale fondato da Eugenio Scalfari. Lo stile giornalistico messo in auge da Repubblica, che programmaticamente non distingue tra fatti e opinioni e che fa del pettegolezzo glamour l’ingrediente essenziale per rendere appetibili le notizie, fornisce l’anello di collegamento tra l’altezzoso moralismo del compianto segretario comunista e la rancorosa e livida cantilena dei velinisti delle procure politicizzate.

 

Ma questa dell’abdicazione della politica è una chiave di lettura che va ricondotta al contesto storico in cui l’intervista si colloca e a cui si deve necessariamente tornare per intendere le ragioni dell’evoluzione successiva e fino ai nostri giorni. La sortita di Berlinguer segna, come si è detto, l’abbandono della linea del compromesso storico. Per anni il PCI aveva perseguito la strategia di un accordo tra i due grandi partiti di massa come panacea per i mali dell’Italia. Quando si registra l’impossibilità di basare su quella formula una stabile soluzione di governo, il PCI non s’interroga sulle ragioni dell’insuccesso, avviando una profonda riconsiderazione ideologica, ma ha un soprassalto identitario. Tuttavia quella che si poteva rubricare a prima vista come un’astuta scorciatoia politica si rivela un vicolo cieco, perché la rivendicazione della diversità comunista si esaurisce in una petizione di principio antropologica priva di spessore storico. Non stupisce, allora, che una simile sintesi sia stata esposta a una deriva "onestista", man mano più virulenta e rabbiosa.

Rileggendo l’intervista a tre decenni di distanza questi limiti appaiono evidenti, e non si tratta solo del logico senno di poi, ma del fatto che una indebita semplificazione percorre tutto il testo. Il mondo sembra diviso in buoni e cattivi, onesti e disonesti, virtuosi e peccatori; senza mezzi toni o sfumature, elementi essenziali per capire il mondo e soprattutto per interpretare la politica. In sostanza, ad un’attenta lettura il libretto raggiunge uno scopo diverso da quello immaginato dai suoi compilatori, perché mostra le radici dell’impasse attuale. Lo consigliamo caldamente a tutti gli elettori di sinistra perché capiscano che per uscire dal ricatto giustizialista è indispensabile (e riprendo qui uno slogan coniato qualche anno da Miriam Mafai) "dimenticare Berlinguer". Se poi si riuscisse a dimenticare anche Scalfari, sarebbe tanto di guadagnato.