Per una difesa liberale del Risorgimento

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Per una difesa liberale del Risorgimento

Per una difesa liberale del Risorgimento

14 Luglio 2007

Alcuni anni fa, una donna di grande
probità intellettuale e di profonda fede religiosa, in virtù della sua carica
di primo cittadino, unì in matrimonio due persone per bene, una delle quali
aveva ottenuto il divorzio dalla prima moglie. Per il sindaco cattolico,
l’unione solo civile era qualcosa di incompleto, di imperfetto in quanto priva
della santificazione del rapporto conferita dal sacerdote nel rito religioso. E
tuttavia, in uno stato laico, anche quell’unione senza sacralità aveva effetti
giuridici, era, insomma, un contratto impegnativo, che meritava non solo la
registrazione dell’atto con le firme degli sposi ma, altresì, un caloroso indirizzo
di saluto augurale da parte del pubblico funzionario officiante. Il sindaco
lesse, pertanto, non senza commozione, una toccante manifestazione dell’amor
coniugale, una lettera di Giuseppe Capograssi all’amata Giulia, quasi a voler
ricordare che i grandi affetti, in definitiva, stanno su un piano che
accomuna  credenti e non credenti.

L’episodio sarebbe piaciuto molto a
Carlo Arturo Jemolo, il grande storico cattolico, che nel lungo arco della sua
esistenza terrena, mostrò come si potesse essere cattolici in Chiesa e laici
nello Stato, senza per questo venir meno né ai doveri nei confronti dell’uno,
né all’obbedienza dovuta all’altra. In fondo, non diversa era la filosofia
politica di Alcide De Gasperi e dei cattolici liberali che ne sostennero la
linea, differenziandosi nettamente dagli integralisti di destra e di sinistra
diversamente allergici alla formula cavouriana della ”libera Chiesa in libero
Stato”.

Mi chiedo: esistono ancora persone come queste?
Vedremo ancora papi, come Paolo VI, disposti a riconoscere l’inevitabilità
della fine del potere temporale e il vantaggio che procurò alla Chiesa la
breccia di Porta Pia che le tolse la sovranità temporale? Vedremo ancora
studiosi cattolici  come  Jemolo con il  culto
– per non dire venerazione – del Risorgimento e dei padri fondatori dello Stato
unitario in questi anni di esaltazione, unanime e trasversale, di Karol Woytila?
Ovvero del  pontefice che, pur grande e
benemerito, ha elevato agli altari Pio IX  il
nemico più irriducibile dello Stato moderno? E fino a quando la lezione
cattolica e liberale del nostro più grande prosatore moderno, Alessandro
Manzoni, continuerà ad essere studiata e apprezzata nelle scuole? Periodici
come “Cristianità” avanzano non da oggi forti riserve sull’ortodossia di don
Lisander e, forse, non è lontano il giorno in cui l’attenzione che gli dedicarono
Giuseppe Mazzini e Antonio Gramsci peserà su di lui come un terribile capo
d’accusa.

A questo punto, diventa inevitabile un
sospetto: che l’auspicato incontro tra cattolici e liberali – reso ancor più
necessario dalla sfida islamica all’Occidente e ai suoi valori – si realizzi
non sulla terra di mezzo del cattolicesimo liberale e del liberalismo non
laicista bensì  ai confini  delle “rivoluzioni atlantiche”, in uno spazio
premoderno che vede i liberali indossare il cilicio e pentirsi per i fatali
errori denunciati dal “Sillabo” (1864) – come il XV (“È libero ciascun uomo di
abbracciare e professare quella religione che, sulla scorta del lume della
ragione, avrà reputato essere vera”) o il LXXIX (“È assolutamente falso che la
libertà civile di qualsivoglia culto, e similmente l’ampia facoltà a tutti
concessa di manifestare qualunque opinione e qualsiasi pensiero palesemente ed
in pubblico, conduca a corrompere più facilmente i costumi e gli animi dei
popoli, e a diffondere la peste dell’indifferentismo”).

Per combattere il fondamentalismo di al-Qaeda
dovremmo pure noi diventare un po’ fondamentalisti e riscoprire le “buone
ragioni” di Pio IX? Temo che questa cura omeopatica non porti lontano. Il
processo allo spirito dell’Occidente e al 
Risorgimento italiano, che con le sue luci e le sue ombre, ne fu una
delle versioni più significative, registra, negli anni dei bicentenari di
Mazzini (2005) e di Garibaldi (2007), una faziosità e uno spirito di revanche quali non si erano mai visti da
centocinquant’anni a questa parte. I corvi neri del revisionismo storiografico
antisabaudo si levano in volo numerosi per ricordarci i costi umani ed
economici dell’unificazione della penisola, gli errori commessi dalle classi
dirigenti prima e dopo la proclamazione del Regno, le confische dei tesori
accumulati nel Mezzogiorno, le violenze degli “eserciti di occupazione”. In
questa ottica, i liberali e i democratici del Sud diventano tutti “collaborazionisti”,
come ha fatto rilevare spiritosamente Claudia Mancina sul Riformista, e, per converso, gli unici veri italiani rimangono i
sudditi fedeli ai vecchi regni e staterelli preunitari. Se ne conclude che la ritrovata
“armonia degli spiriti”, la fine della plurisecolare guerra civile passa attraverso
la cancellazione del liberalismo e della democrazia  che, piaccia o no, vennero alla luce, nelle
loro forme classiche, negli anni della costruzione dello Stato italiano – che
alcune componenti del blocco liberaldemocratico auspicavano   federale mentre altre, in maggioranza, volevano%0D
“uno e indivisibile”, anche se tutte erano poi d’accordo nel far piazza pulita
di tutte le amministrazioni d’ancien
régime
.

I lontani eredi di Cavour e di
Mazzini dovrebbero vergognarsi di discendere da chi aveva cancellato lo Stato
della Chiesa, dove gli ebrei venivano ogni sera rinchiusi nel ghetto e i
peccati erano considerati come veri e propri reati? Dovrebbero dolersi di aver
ammirato i Cuoco, i Settembrini, i De Sanctis che il “paternalismo” borbonico
avevano sperimentato sulla loro pelle? Dovrebbero rimpiangere Parma e la
duchessa Maria Luigia, che aveva fatto costruire tanti bei palazzi? Dovrebbero
additare come modelli di republicanism
le repubbliche di Genova e di Venezia in mano ad aristocrazie chiuse e
corrotte? Passi che tutto questo venga rimuginato nelle madrasse del
tradizionalismo cattolico o ghibellino ma che vi siano liberali convinti sotto
sotto della dimensione atea ed eversiva del Risorgimento è, a dir poco, stupefacente.
La classe dirigente post-cavouriana era così poco atea che i suoi esponenti
liberali (e liberalconservatori) erano quasi tutti cattolici e praticanti: da Bettino
Ricasoli a  Ruggero Bonghi, da Marco
Minghetti, il più forte cervello liberale del secondo Ottocento, a Stefano
Jacini; e quanti non erano cattolici, come De Sanctis o Silvio Spaventa,
avevano una concezione austera della vita fatta di elementi religiosi seppur di
una religiosità laica e patriottica.

No, il Risorgimento resta l’incubatrice del
liberalismo italiano: non ci si può richiamare all’uno, denigrando l’altro. E’
vero che in esso  non ci fu solo il costituzionalismo
ma tante altre cose che non avevano nulla a che vedere con Locke e con
Constant. Sennonché la grandezza dell’elite sabauda consistette anche
nell’utilizzare quelle “altre cose” come mattoni per costruire una nuova, più
avanzata, compagine statuale. Se un giorno si metterà mano a un Dizionario del liberalismo italiano si
rimarrà, forse, stupiti dalla ricchezza del nostro liberalismo ottocentesco e
appariranno in piena luce l’ignoranza e il pressappochismo dei revisionisti ultras ai quali Foglio e Avvenire
spalancano, spesso e volentieri, le loro redazioni.