Per una fenomenologia della politica
18 Ottobre 2012
Per comprendere i termini principali utilizzati in politica, e dunque per capire appieno i fenomeni culturali e socio-politici, non è possibile fare a meno del riferimento a profili spirituali. In effetti, la politica consiste nell’individuazione e realizzazione di possibili soluzioni a problemi sorti in seno alle società, sicché, ad ogni problema sociale, ogni uomo nella società darà una risposta che sarà espressione di convinzioni – quindi di posizioni culturali –, le quali, a loro volta, si fonderanno su di elementi che non sono per nulla privi di riferimenti spirituali (i quali ne sono, anzi, il motore primo). Infatti, laddove si postuli l’esistenza di un ordine trascendente – rectius, anche qualora non lo si postuli, ma esso effettivamente esista –, sarà evidente come gli uomini siano portati a certe risposte politiche, piuttosto che ad altre, sulla base di scelte che vengano incontro a tale ordine trascendente o che rompano con esso: il richiamo interiore dello spirito, che ricorda all’uomo il suo posto nel mondo, potrà quindi essere accolto o tacitato. In entrambi i casi, la posizione sarà frutto di un’inclinazione spirituale di assenso o di rigetto dell’ordine trascendente, del richiamo interiore.
Ma, quand’anche un ordine trascendente non esista, profili spirituali permangono: primariamente perché i credenti agirebbero comunque sulla scorta della convinzione che li ispira qualcosa che è al di là del mondo sensibile; secondariamente perché – pur così restringendosi il campo dello “spirituale” a profili meramente concettuali, educativi e psicologici – anche i non credenti, in ogni caso, agirebbero e sceglierebbero le opzioni politiche fondandosi su convinzioni – per quanto confuse – e su mentalità diverse, nonché su freni provenienti dall’educazione ricevuta (oltre che persino dall’emotività). In altri termini, rispetto ai problemi sociali, entrerebbero comunque in moto dei fattori interiori di tipo spirituale e non solo il mero calcolo utilitaristico: di fronte ai problemi concreti, di fronte alle concrete scelte da operare politicamente, il cittadino reagisce ai problemi e sceglie le soluzioni in base al multiforme atteggiamento che assume nella vita quotidiana rispetto ai problemi stessi.
Per esempio, rispetto al problema dell’eutanasia, egli aderirà ad una soluzione ad essa contraria (o ad essa favorevole) solo perché incline (o poco incline) ad accettare l’insignificanza spirituale della vita umana in certe condizioni. Si può dunque dire che tutti i termini che rilevano in politica – conservatore, reazionario, progressista, Rivoluzione, Tradizione, reazione, riforma, riformismo/riformista, Destra, sinistra, centro, etc. – hanno un substrato spirituale. Essi si comprendono appieno solo facendo riferimento allo spirito e specialmente facendo riferimento alle mentalità che entrano in gioco nell’approcciare le questioni socio-politiche.
In tal senso, ogni uomo è spiritualmente un “reazionario”, o, più propriamente, un insorgente verso la situazione data: di fronte alle problematiche sociali, ogni uomo insorge in un modo o in un altro, vi reagisce – un fenomeno di cui ha scritto il politologo Giovanni Cantoni (L’Insorgenza come categoria storico-politica, in Cristianità n. 337-338/2006). Ciò significa che, in un certo qual modo, anche l’uomo di sinistra è un “reazionario”, in prima analisi: la differenziazione si ha sulla base della successiva caratterizzazione verso cui piega la reazione iniziale. Rispetto alle problematiche sociali, infatti, la reazione può consistere in un re-agire in chiave più “conservatrice” oppure in un re-agire più “progressista”. La differenza si fonda sul diverso approccio mentale di fronte alla questione. Laddove il “reazionario” sia più incline a stravolgere le cose, ritenendo necessaria una discontinuità, una tabula rasa, modificando non solo la situazione data, ma anche i principi da applicare ad essa, sarà indubbiamente un novatore e, in quanto tale, un “progressista”; laddove, invece, sia meno incline a stravolgimenti, cercando sì di arginare la situazione di difficoltà, ma preferendo arginarla attraverso i principi di sempre, sarà meno innovatore e dunque “conservatore” (cfr. Filippo Giorgianni, Che cosa significa essere conservatore, in Cultura & Identità. Rivista di studi conservatori n. 14/2011).
Alla base, v’è una diversa mentalità. Nel primo caso, è sottesa la mentalità relativista rivoluzionaria secondo cui i principi sono relativi e possono essere cambiati/rivoluzionati nel tempo, la Rivoluzione essendo non necessariamente un cambiamento repentino, magari perpetrato con la violenza, di fronte a degli abusi sociali e politici, bensì – come intuito già dal conte Clemente Solaro della Margarita nel suo Memorandum storico politico e come analizzato da Hannah Arendt e José Ortega y Gasset (nonché parzialmente dal comunista Roger Garaudy nella voce Rivoluzione dell’Enciclopedia del Novecento) – essendo un mutamento, anche lento ma definitivo, degli “usi”, dei principi, seppur giustificato dalla lotta agli abusi: come scriveva Ortega, la Rivoluzione non è la barricata ma è una condizione dello spirito (El Ocaso de las Revoluciones, in Carlo Mongardini e Maria Luisa Maniscalco, Il pensiero conservatore. Interpretazioni, giustificazioni e critiche).
Nel secondo caso – quello “conservatore” –, è invece sottesa una mentalità tradizionale, ancorata ad un pensiero forte, che presuppone sia più normale una continuità col passato e che presuppone certi principi siano non relativi, bensì sempre validi nel tempo e nello spazio: si affronta quindi l’abuso, si tenta di eliminarlo, ma mantenendo l’uso, mantenendo il principio – in questo modo, tra l’altro, nella misura in cui si trovi costretto dalla situazione data a risolvere gli abusi, il conservatore sarà anche un riformatore (cosa diversa dal riformista). In altri termini, vi sono una reazione che poi diviene rivoluzionaria, da un lato, e una reazione in senso proprio, dall’altro, la quale non solo agisce rispetto alla situazione sociale, ma re-agisce anche contro l’azione progressista, contro il rivoluzionarismo, divenendo così reazionarismo in senso stretto e comunemente detto. Ora, poiché alla base delle posizioni politiche v’è la suddetta “reazione” interiore, quanto detto permette di rilevare che, anche quando essa finisca col deviare verso sinistra, la «reazione precede sempre la Rivoluzione» (come sostenuto dal succitato Cantoni in Marco Ferrazzoli, Cos’è la destra. Colloqui con diciotto protagonisti della cultura non conformista), e permette anche di distinguere tra la ribellione (o rivolta) – vale a dire, il rigetto (o reazione) attivo (e magari armato/violento) agli abusi subiti – e la Rivoluzione: la prima è solo il momento originario di ogni collocamento politico, la seconda è un tipo specifico di collocamento.
Una tale divergenza binaria smentisce letture politiche relativiste – come quelle di Norberto Bobbio, di Marco Revelli e, in parte, anche del pur ottimo Marcello Veneziani – e individua in modo non relativo la differenzazione tra Destra e sinistra, così come individuata dal politologo canadese Jean Laponce (Left and Right: The Topography of Political Perceptions) e parzialmente dal professor Dino Cofrancesco (Destra e sinistra): se, almeno in prima approssimazione, a Destra c’è la Tradizione – intesa non come fissismo, bensì come continuità nel tempo e mantenimento di determinati principi –, a sinistra c’è la Rivoluzione. Tra l’altro, come spiegato da Laponce, proprio a causa della riaffermazione di principi sempre validi nel tempo, la Destra si fonda (storicamente e non solo filosoficamente) sul trascendente e viene a convergere con la religione, mentre la sinistra, rivoluzionando i principi, rigettandone il fondamento trascendente, si contrappone alla religiosità.
Tuttavia, il fatto è che una consapevolezza di questi elementi, nonché della storia e dei concetti sottesi alle parole destra e sinistra, non sempre è presente negli agenti sociali: coloro che nella società e nella politica reagiscono alla situazione data non sono necessariamente solo persone razionali, logiche, informate, esistendo anche uomini non intelligenti, ignoranti o comunque non sempre coerenti e razionali. Per tale ragione però, la reazione, pur muovendosi entro la biforcazione dei binari Tradizione-Rivoluzione, subisce la proliferazione di apparenti ibridazioni (o incroci) tra i due binari, le quali comunque sono riconducibili alla biforcazione iniziale. In effetti, un ibrido tra continuità e discontinuità, non è altro che una discontinuità moderata che profila pur sempre una rottura con i principi originari, sebbene tale rottura avvenga con una marcia più lenta. In tal modo si comportano, ad esempio, il riformista – colui che ricerca la Rivoluzione, ma a tappe, abbracciando comunque principi nuovi e quindi essendo rivoluzionario de facto – e il “moderato”, il centrista che pretende di poter stare in mezzo tra i due poli culturali e politici, e quindi in mezzo tra lo spirito tradizionale e quello rivoluzionario, ma che, nel momento stesso in cui rivendica una posizione intermedia, finisce coll’abbracciare una posizione “discontinua”, per quanto rallentata o parziale.
Inoltre, le diverse e nuove problematiche sociali, che si presentano nel tempo, tendono a portare con sé nuovi progressismi (così come compreso da Jean Madiran, La destra e la sinistra), ispirati sempre dalla medesima mentalità rivoluzionaria – che è un processo, una continua produzione di nuovi modelli ideologici –, ma più o meno diversi da quelli precedenti: «Ogni generazione porta con sé un nuovo modello di progressismo che accantona con disprezzo il modello precedente» (Nicolás Gómez Dávila, Tra poche parole), pur rimanendo eguale a tutti i modelli il motore su cui si fondano: «Il processo rivoluzionario è insaziabile […]. La rivoluzione non può far fronte allo stato di agitazione permanente da lei causato, perché lo alimenta» (Thomas Molnar, La Controrivoluzione), in quanto «i sedimenti culturali della prima ondata rivoluzionaria facilitano la seconda» (Idem, La Sinistra). Ciò significa che è falsa la concezione secondo cui vi sarebbero molte “destre” e molte “sinistre”: più che altro, una sola è la Destra – in quanto trascendentemente fondata –, come compreso dal già citato Solaro della Margarita, e molte le sole forme esteriori della sinistra (comunque unitaria nella propria cornice spirituale e di principio fondamentale).
A ciò si aggiunga, infine, che, a causa della predetta inconsapevolezza degli agenti socio-politici e a causa del proliferare di nuovi progressismi, lo stesso reazionario in senso stretto non sempre si ricollega alla continuità della Tradizione, a principi trascendenti, ma semplicemente risponde in modo difforme rispetto al progressista su singoli punti su cui entrambi reagiscono, limitandosi così ad abbracciare alcuni elementi tradizionali, ma non tutti, e cedendo alla mentalità progressista per il rimanente: è il caso del politicamente scorretto in risposta al politicamente corretto; oppure della mera reazione autonomista al dirigismo economico progressista che si limita a rispondere solo sul piano economico alla sinistra, ma non va oltre nell’opporsi ad essa su altri campi.
La reazione, in tal modo, anche quando si rappresenti come reazione in senso proprio, non si muove verso la Destra, ma si colloca accanto a quest’ultima come “destra” spuria, come ulteriore forma di annacquamento o ibridazione con la sinistra, posta, sul piano logico, insieme alla sinistra riformista e al centro. Sicché, quand’anche si collochi “a destra”, una tale reazione sarà in verità rivoluzionaria, recuperata dalla mentalità avversaria – alcuni autori (tra cui Francísco Elías de Tejada, La monarchia tradizionale e Vittorio Mathieu, La speranza nella rivoluzione. Saggio fenomenologico) parlano di «momento conservatore» del rivoluzionarismo con riguardo a tali reazioni. Non vi sono quindi altre “destre”, ma solo “destre” nominali, ibridate con la sinistra (e quindi, logicamente, solo sinistre più moderate). Come segnalava il liberalconservatore Erik von Kuehnelt-Leddihn nell’introduzione ampliata all’edizione italiana del suo Liberty or Equality – The Challenge of Our Time, tali reazionarismi non sono altro che un «sinistrismo invertito, il rovescio della medaglia della sinistra», o, secondo Ortega y Gasset, un «parassita della Rivoluzione», come concretamente avvenuto nel caso del nazionalsocialismo hitleriano e nel fascismo, movimenti di sinistra, riciclati come “destre”, e in tal senso studiati dallo stesso Kuehnelt-Leddihn (in Leftism Revisited. From Sade and Marx to Hitler and Pol Pot), dallo statunitense Jonah Goldberg (Liberal Fascism. The Secret History of the American Left, from Mussolini to the Politics of Change) e in parte da Augusto Del Noce (Cristianità e laicità).
Ciò permette di rilevare le parentele profonde che vi sono tra movimenti solo apparentemente contrari nel segno e nelle forme esteriori. Sebbene Destra, “destre” spurie e centristi, al livello partitico spesso si uniscano utilitaristicamente nei cosiddetti fusionismi – è il caso dei maggiori partiti e coalizioni osservabili in ambito internazionale, tra cui il centrodestra italiano –, la differenza interna permane. Nella misura in cui, come detto, i reazionari non sempre riescono ad abbracciare una mentalità tradizionale, si comprende facilmente che reazionari di tal fatta tendano ad essere attratti a sinistra, nonostante le contingenze storiche li portino altrove. Del resto, una legge politologica formulata da Robert Conquest recita testualmente che «ogni organizzazione non esplicitamente di destra diviene prima o poi di sinistra» (citata in Roger Scruton, Del buon uso del pessimismo).
Non è casuale che il nazionalsocialismo abbia attecchito elettoralmente nelle medesime regioni tedesche che nel dopoguerra hanno fatto da bacino elettorale della sinistra tedesca; così come non è casuale che uomini e movimenti strutturatisi “a destra” inizialmente, nel tempo si siano spostati fino all’estrema sinistra, come nel caso della fuga verso il PCI di molti intellettuali ex fascisti – che non può essere spiegata col solo opportunismo, posto che essi scrivevano cose decisamente di sinistra anche sotto il fascismo (cfr. gli studi di Giuseppe Parlato e Paolo Buchignani in merito) –, oppure dell’indipendentismo basco e di gran parte del carlismo spagnolo, lentamente slittati verso posizioni partitiche e culturali progressiste estreme. Un’analisi di questo genere – qui solo abbozzata – permette, così, di guardare in profondità nelle pieghe della politica partitica e nelle pieghe del panorama politico-culturale (per quanto povero). Permette anche di valutare più attentamente le forze di centrodestra e di provare ad evitare che esse subiscano derive verso sinistra, tenendole ancorate al proprio alveo di origine, come nel caso italiano e attualissimo della Lega Nord che già sembra smarcarsi dalla propria collocazione quasi ventennale, rischiando l’epilogo dei suoi omologhi autonomisti iberici.