Per una tutela reale e radicale della Vita

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Per una tutela reale e radicale della Vita

09 Febbraio 2013

Edinson Cavani [fuori tema, e quindi tra parentesi quadre: se non il più tecnico, attualmente il più decisivo giocatore in servizio, e chissà che non c’entri la sua granitica fede in Gesù] ha messo in rete un mirabile fotogramma dell’ecografia uterina di sua moglie. Si direbbe proprio che la signora Cavani sia incinta. E non mi sembra che occorra aver studiato il catechismo o avere la stessa fede dei Cavani, per riconoscere che cosa – rectius, chi – ospiti nel suo grembo.

È un bambino, un piccolo – d’accordo molto piccolo, e allora? – d’uomo. Fin dall’inizio: non si diventa in sostanza ciò che non si è. E nemmeno occorre aver frequentato un master in teologia per definire con il suo vero nome che cosa accadrebbe se quest’«ospite» (Dio guardi!) venisse smembrato, aspirato via, raschiato o avvelenato con una soluzione salina. Nessun altro nome potrebbe avere un simile accadimento se non «soppressione di una vita umana innocente», altrimenti detta aborto, ovvero nella neo-lingua «interruzione volontaria di gravidanza».

Chi potrebbe  seriamente ritenere un simile atto una conquista o addirittura un diritto? Eppure, in forza della legge 194 del 1978, nei primi tre mesi di gravidanza eso è in piena e di fatto incondizionata facoltà della madre – che è tale dal momento del concepimento, non da quello del parto –, ma soprattutto di chi, troppo spesso il padre che rifiuta con il figlio non ancora nato le proprie responsabilità, ve la induce.

Lasciare ai preti e ai credenti il privilegio di riconoscere queste verità tutto sommato elementari e l’impegno per arginare come possibile la marea di circa diecimila aborti «legali» al mese solo in Italia, sarebbe per ogni altro uomo di retta ragione e buona volontà un’abdicazione mortificante. E così anche per una forza politica che volesse davvero essere attenta al bene comune e agli autentici diritti della persona. Anche di quella ancora non nata, ma non per questo di specie diversa da quella umana.

Né si può dire diversamente dell’eutanasia e di ogni forma di suicidio assistito, per quanto richiesto in una sorta di testamento. La vita è qualcosa che ci trascende troppo perché possa essere data nella disponibilità di qualcuno, fosse anche di chi la vive. Se non ce la siamo data, neppure possiamo togliercela. E se l’accanimento terapeutico è certo da evitare, nessuna eutanasia è una «morte dolce», perché porta con sé l’idea che vi siano vite indegne di essere vissute. Che siano al tramonto o che siano aurorali. E rende inevitabile, per intrinseca coerenza logica, l’eugenetica, che con l’esperienza della zootecnia si preoccupa della qualità della produzione umana, non nel senso di ciò che l’uomo produce, ma nel senso della produzione di essere umani.

Non più procreati, ma fabbricati. Sottratti sì a quella che Veltroni ricordò come «lotteria della nascita», ma perciò stesso privati della libertà originaria dell’essere che non può essere selezionato, manipolato, «voluto» o «disvoluto» come una cosa.

In questa cupa prospettiva nichilista, poco importa se eutanasia ed eugenetica siano di stato – come nel III Reich nazionalsocialista, ovvero nelle socialdemocrazie scandinave del secolo scorso –, ovvero «liberali», cioè rimesse alla totale e autodi-struttiva autodeterminazione individualistica. Ma non mancherebbero i rigurgiti neo-statalisti: i servizi sanitari nazionali sono troppo aggravati dai costi di assistenza degli scarti di produzione che ancora sfuggono alla selezione eugenetica, ovvero delle cure di chi, pure ormai improduttivo, non si decide a morire naturalmente, perché non sia forte la tentazione di ricuperare eutanasia ed eugenetica di stato.

La tutela reale e radicale del diritto alla vita – anche contrastando la diffusione di ogni tipo di droga: è difficile pensare che sia dissuasivo liberalizzarne il consumo e affidarne allo stato la distribuzione, come se la pulsione drogastica fosse puramente trasgressiva e quindi venisse ad essere demotivata una volta istituzionalizzata (o è una vita spericolata, o non interessa), istituzionalizzazione che porterebbe invece ad un più grave inebetimento della nazione – nell’esalogo proposto da Alleanza Cattolica è al primo posto.

Forse non lo è ugualmente nelle aspettative della maggioranza degli elettori. Anche, se non soprattutto, perché non se ne parla abbastanza, non se ne illustra adeguatamente l’oggettivo primato. Quasi mai, tuttavia, solo ciò che appare popolare è anche salutare. In realtà, è dalla giusta considerazione e dall’autentica tutela del diritto alla vita – dal concepimento alla morte naturale – che il primato della persona prende concretezza e la limitazione di poteri e pretese dello stato ha un corretto fondamento. Anche sul terreno economico-fiscale. Spiegarlo non sarebbe difficile, e sostenerlo, oltre che giusto, non sarebbe elettoralmente improduttivo. Basterebbe convincersene e provarci.

Il discorso continua.