“Per uscire dal pasticcio delle liste del Pdl serve una soluzione politica”

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“Per uscire dal pasticcio delle liste del Pdl serve una soluzione politica”

03 Marzo 2010

A caldo, non appena si era diffusa la notizia che la lista del Pdl per le regionali a Roma non era stata presentata il suo era stato il commento più aspro: "Io non ci sto a fare il parente povero di questa banda di incapaci". Quarantotto ore dopo, Gianfranco Rotondi, ministro per l’attuazione del programma è insieme più riflessivo e più pungente.

Ministro, c’è chi dice che lei ha colto questa occasione per protestare contro il gruppo dirigente del Pdl che avrebbe chiuso le porte ai candidati proposti da lei.
Guardi, io osservo solamente che la nostra è l’unica componente del Pdl che proviene dalla Dc, anzi è l’ultimo partito che ha difeso l’orgoglio di essere Dc, a non aver avuto nemmeno un candidato presidente di Regione e solo tre candidati a consiglieri. Avrei molti motivi per protestare, anche al di là di questo "pasticcio laziale".

Ma un’idea se l’è fatta di come sono andate le cose?
Non voglio inseguire retroscena e chiedo a tutti di rimanere ai fatti. Escludo che qualcuno potesse pensare di cambiare i nomi dei candidati all’ultimo minuto e per giunta in tribunale, è una cosa che non sta in piedi.

E allora cosa è successo?
E’ successo che il primo partito italiano non ha presentato la lista con le cautele necessarie per una elezione così importante come le elezioni regionali del Lazio. Mi sembra paradossale parlare di una presunta violenza dei radicali o di un pregiudizio politico da parte del giudice che doveva accettare la lista. Da dirigente politico del Pdl osservo invece che la lista avrebbe dovuto essere presentata venerdì e non sabato all’ultimo minuto. Il mio amico Francesco De Luca, deputato del Pdl che come me viene dalla tradizione democristiana, è stato in grado di mettere insieme in pochi giorni una lista della Dc a sostegno della candidatura di Roberto Cota a presidente del Piemonte e nonostante fosse da solo l’ha presentata ventiquattrore prima della scadenza dei termini facendo quello che un bravo dirigente politico deve saper fare.

Sì ma lei sa quanto è più complesso predisporre la lista del Pdl e per giunta nella Capitale?
Guardi, un piccolo partito può arrancare nella ricerca dei candidati e sulla raccolta delle firme e può aver bisogno della notte del venerdì e pure della mattina del sabato per chiuderla. Un grande partito, invece, dovrebbe preparare le liste elettorali con un anticipo sufficiente da poterle depositare con un giorno di anticipo. Nei grandi partiti di un tempo andava così: quando gli organi dirigenti del partito avevano approvato la lista, al termine di una procedura complessa che coinvolgeva tutti i livelli territoriali, nessuno poteva più metterla in discussione. La decisione della direzione del partito valeva per tutti.  Voglio però andare oltre.

E cioè?
In tutta questa storia occorre separare l’aspetto giuridico dalla questione politica ed è su questa che vorrei soffermarmi.

Si riferisce a chi ha la responsabilità di quanto accaduto?
Esistono responsabilità oggettive e appartengono a chi ha istruito il procedimento elettorale, a tutta la classe dirigente del Pdl di cui anch’io faccio parte. Detto questo c’è una questione politica più generale che dovrebbe guidare le questioni giuridiche.

Cosa intende?
Analizziamo il problema sotto il profilo dei costi-benefici per la democrazia.

Lo faccia.
A chi conviene sul piano della legittimazione politica, in nome della sacralità delle regole e delle procedure elettorali, affrontare una competizione in cui la lista del Pdl è esclusa. Mi rendo conto che a qualcuno può sembrare un vantaggio. Ma a che prezzo? Tutti si dicono bipolaristi e poi si cerca di vincere in assenza di uno dei due poli? Sarebbe questo uno dei laboratori politici in cui si cimenta la sinistra? Altro che il laboratorio della Puglia dove si voleva costruire un nuovo gioco delle alleanze. Qui si punta sulle esclusioni.

Lei insinua che la sinistra non potrebbe vincere altrimenti?
No, guardi. E’ molto di più e molto peggio. Affidare la propria capacità di competere al formalismo giuridico può produrre due effetti, uno più clamoroso dell’altro. Il primo: la sinistra conquisterebbe opportunisticamente una vittoria fino a ieri altamente improbabile alzando la bandiera del bigottismo giuridico. Il secondo sarebbe quello di produrre un centrodestra residuale diverso da quello reale.

Che intende?
I romani che volessero votare per Renata Polverini si troverebbero costretti a passare dalla lista della Destra di Storace o da quella dell’Udc di Casini producendo, sia in caso di vittoria che di sconfitta, un bipolarismo "laziale" sui generis, artificiale: da un lato il Pd, dall’altro un mix composto dal centro di Casini e dalla Destra di Storace. Una formazione che priva della struttura centrale del Pdl, non potrebbe reggere. Insomma, un "ogm" politico prodotto a dispetto della volontà degli elettori. Chi ha a cuore la politica e la sua capacità di rappresentare la società non può certo compiacersi di questo risultato. E i primi che dovrebbero dolersene, a mio avviso, dovrebbero essere i dirigenti del Pd. Sono sicuro che il Pci di Togliatti avrebbe avuto tutt’altro atteggiamento e di fronte a un’ipotetica esclusione della Dc per un errore tecnico, avrebbe detto: "alt, ripristiniamo il diritto della Democrazia Cristiana a contrapporsi a noi” e per questo si sarebbe adoperato per una soluzione politica. Bersani che la lezione di Togliatti l’ha dimenticata, pensa di portare a casa un risultato dicendo: "Nessuno si azzardi a pensare a una leggina". E’ evidente a tutti la differenza di spessore.

Sì, ma così lei assolve del tutto il suo partito?
Tutt’altro. Proprio perché non ho risparmiato le mie critiche, lascio la porta aperta anche all’ipotesi che non si sia trattato di un errore ma di una situazione caotica in cui il delegato di lista del Pdl sia stato ostacolato nel rientrare nell’ufficio da cui si era momentaneamente assentato. Non spetta però a me ricostruire i fatti.

Che propone allora?
Governo e parlamento avrebbero la legittimazione di predisporre una soluzione tecnico-politica, ma questa non è la nostra volontà né appartiene alla nostra cultura. A mio avviso spetterebbe al Pd dare un segnale, prendere l’iniziativa, fare quello che avrebbe fatto Togliatti e farsi parte diligente per una soluzione anche legislativa condivisa da maggioranza e opposizione, senza eccezione alcuna, che restituisca ai cittadini di Roma e del Lazio una leale competizione elettorale. Anche Di Pietro sa bene che la legalità non è solo formalismo.

Guardi, ministro, che hanno già detto di no. E anche nel governo le voci contrarie non sono poche.
Confido che possa esserci innanzitutto da parte del Pd un supplemento di riflessione da parte soprattutto di chi ha più esperienza. Penso al mio amico Franco Marini e a tutte quelle persone che hanno la saggezza di rendersi conto che non c’è vittoria elettorale che valga l’eliminazione del confronto democratico.

Ministro, parliamo d’altro. Da ieri ha una collaboratrice di lusso, Daniela Santanchè, una personalità con caratteristiche tutte diverse dalle sue. Come sarà il vostro lavoro insieme?
Sono stato io a suggerire l’inserimento nella squadra che si occupa dell’attuazione del programma di Daniela Santanchè; il presidente Berlusconi e tutto il consiglio dei ministri hanno convenuto che era la scelta migliore.

Tutti sanno quanto la Santanchè sia capace di conquistare la scena mediatica. Non pensa che le farà ombra?
Guardi, è proprio qui la bontà della scelta. La nostra attività è per metà verifica dei risultati e per metà comunicazione all’opinione pubblica. E proprio perché abbiamo caratteristiche diverse ci divideremo i compiti: vorrà dire che io mi occuperò delle cose che appaiono meno, come direbbe il mio amico Brunetta del back-office. E che Daniela, che lavora tantissimo e che è bravissima nel comunicare, si dedicherà proprio a questo. Questa squadra di governo produce risultati anche perché mette a frutto al meglio le attitudini di ciascuno.