Per uscire dalla crisi finanziaria non serve una nuova Bretton Woods
10 Ottobre 2008
Sono in molti tra gli analisti finanziari, tra gli economisti e tra i comuni commentatori di come vanno le cose del mondo ad essersi convinti dell’esigenza di “ricostruire” il sistema finanziario mondiale, immaginando di tornare a Bretton Woods, o in chissà quale ameno posto del mondo, per ridisegnare l’architettura della cosiddetta “terza generazione del capitalismo”. Dobbiamo ammettere che il noto libro di Tremonti ha fatto scuola: “Il mito del XXI secolo, il mito dell’economia che è tutto, che sa tutto, che fa tutto; il mito dell’economia dominatrice assoluta della nostra esistenza, matrice esclusiva di tutti i saperi e di tutti i valori; il mito a cui soprattutto in Europa tantissimi hanno creduto in questi ultimi anni, ci ha in realtà prima rubato un pezzo di vita e di storia […] e poi ha fallito nel suo piano innovativo e progressivo di ingegneria sociale globale mosso dal motore primo della finanza”. Sono queste le parole preoccupate di Giulio Tremonti. Il ministro dell’Economia compie un’operazione senz’altro interessante, per quanto discutibile; egli tenta la sostanziale equiparazione tra globalizzazione e ciò che chiama “mercatismo”. Il mercatismo, a rigor di logica, dovrebbe rappresentare l’ideologia del mercato, una sorta di ferrea gabbia logica nella quale le uniche variabili significative sarebbero i prezzi e le quantità domandate ed offerte. Non esistono i valori, non esiste la politica, non esiste la pratica della virtù. Quindi non esiste l’uomo, ma la sua caricatura, l’homo oeconomicus. Un mercato siffatto non sarebbe solo disumano, semplicemente non sarebbe.
Il mercato avrebbe dunque fallito nel suo “piano innovativo e progressivo di ingegneria sociale globale”, e per fortuna! Tuttavia, nella prospettiva dei pianificatori e dei costruttivisti di ogni specie e tempo non si può lasciare il mondo privo di un progetto (il loro), di un piano, di un disegno sistematico che ne indichi l’orientamento e manifesti la direzione ultima della storia (la loro). Ecco, allora, che torna in auge la proposta di una nuova Bretton Woods, di un “sinodo” dei potenti del mondo che faccia ciò che l’ordine di mercato ha mostrato di non saper fare da sé. Come sempre, al di là del legittimo riconoscimento delle buone intenzioni, devo ammettere che avverto qualche imbarazzo a capire quali dovrebbero essere i contenuti di una eventuale nuova Bretton Woods. In quell’occasione, il grande problema fu l’individuazione degli strumenti politico-finanziari che riaccendessero (o meglio, che accendessero) la fiducia tra gli stati, stabilizzando i cambi monetari, dopo la tragedia di due guerre mondiali e le nefaste conseguenze dell’umiliazione subita dalla Germania nel primo dopoguerra. Oggi il problema è sempre di carattere fiduciario, ma riguarda le relazioni tra gli operatori bancari.
Non si tratta, quindi di “ridisegnare una nuova architettura del capitalismo di terza generazione”. In primo luogo, perché le architetture della prima e della seconda generazione del capitalismo non sono sorte per decreto o attraverso “sinodi”; le rivoluzioni industriali sono state il prodotto di un’incubazione economico-imprenditoriale-finanziaria, ma prima ancora filosofica e teologica, durata secoli, che parte dalla caduta dell’Impero romano e giunge fino alle rivoluzioni borghesi, passando per la tradizione commerciale medioevale, per l’umanesimo laico e cristiano e per il rinascimento. Bretton Woods finisce nel 1971, ma le sue rigidità rappresentarono sin dall’inizio un grande problema. Quindi, pensare ad un nuovo “sinodo” dei potenti mi lascia perplesso.
In secondo luogo, una nuova Bretton Woods per decidere che cosa? Sappiamo che in un mondo in cui la conoscenza fosse perfetta non avremmo alcuna crisi, ma quel mondo non esiste e chiunque si prenda la briga di fare il “grande architetto” del mondo o è un folle ovvero si crede di essere il Padre Eterno. Scartando la seconda ipotesi, diffiderei della prima. La soluzione all’attuale crisi passa per la riconquista della fiducia, e noi sappiamo di poterci fidare l’uno dell’altro solo se ci conosciamo a vicenda. Io sono disposto a stringerti la mano solo se, conoscendoti, sono certo che il palmo aperto della tua mano tesa non si trasformerà in pugno chiuso sul mio naso. Bisogna, dunque, operare perché ci si riappropri delle ragioni della fiducia. Un mercato (nel senso röpkiano del termine), riconosce il ruolo dell’intervento pubblico – sebbene non lo raccomandi necessariamente –, a condizione che sia “conforme” al mercato stesso e non lo soffochi. Un intervento è conforme al mercato quando trasmette informazioni che accrescono la conoscenza tra gli operatori e promuovono la fiducia: il lubrificante del sistema. Ne consegue che gli strumenti per superare l’attuale crisi, piuttosto che di ordine architettonico (sistematico), dovrebbero essere di ordine antropologico, mirati ad aumentare il grado di conoscenza tra gli operatori, di ordine politico, tesi a promuovere la trasparenza delle operazioni, e di ordine giuridico, capaci di far rispettare la parola data (qualcuno dovrebbe anche pagare ogni tanto). Queste sono le ragioni della fiducia ed è questo, unito all’esigenza di superare i propri limiti al fine di raggiungere i propri obiettivi, ciò che aziona il motore del mercato.
Ultima annotazione, a margine di quanto detto finora. Si è molto discusso della fine del “capitalismo” (corsi e ricorsi…), del fallimento del modello della “mano invisibile”. Su questo punto vorrei avanzare una modesta precisazione. Tutti sanno benissimo che l’espediente letterario della “mano invisibile” è stato elaborato da Smith non tanto e non solo per consolidare teoricamente il laissez faire, quanto per evidenziare anche e soprattutto un dato epistemologico da sempre conosciuto dagli studiosi delle scienze sociali ed in particolar modo dagli autori del liberalismo classico: il problema delle conseguenze inintenzionali delle azioni intenzionali. Un problema che ha molto a che fare con le questioni fin qui esposte. Una nuova Bretton Woods, alla luce della teoria della “mano invisibile”, dovrebbe tenere conto in primo luogo delle conseguenze non intenzionali dei piani posti in essere dal “grande architetto” di turno. Coloro che hanno criticato il piano Bush-Paulson (ed è documentato che il sottoscritto non è tra coloro) non credo l’abbiano fatto per ignoranza o perché beceri divulgatori di chissà quale cattiva cultura economica ovvero selvaggi spiriti animali accecati dall’odore del sangue delle loro prede, ma semplicemente perché hanno assunto ideologicamente (ed è questa semmai la loro colpa) una questione reale che i costruttivisti e pianificatori di ogni specie si ostinano a non voler considerare: le conoscenze a nostra disposizione sono insufficienti ed ogni tentativo di quadratura del cerchio rischia di risolversi in un rimedio peggiore del male.
Allora, assunto che il mercato è il sistema di relazioni che può ragionevolmente garantire nel miglior modo possibile la dignità della persona in ambito economico, partiamo dal presupposto che esso non possa esistere senza la fiducia reciproca tra gli operatori, che la fiducia si costruisce intensificando la conoscenza, che la conoscenza richiede trasparenza e che solo le regole possono promuoverla. Regole che, ispirate da una prospettiva antropologica di natura relazionale e personalistica, sulla scorta della lezione di Erhard, Röpke, Eucken (ma anche