“Per uscire dalla crisi i governi devono accelerare la nascita degli Stati Uniti d’Europa”

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“Per uscire dalla crisi i governi devono accelerare la nascita degli Stati Uniti d’Europa”

14 Giugno 2012

Non c’è alternativa alla nascita degli Stati Uniti d’Europa. E paradossalmente, questo diavolo di crisi spinge i 27 ad accelerarne il processo. A freddo, ragiona così Mario Mauro, presidente degli europarlamentari Pdl, ma con tredici anni di vita parlamentare sulle spalle, sa anche che “la politica risponde a logiche irrazionali e di irrazionalità ne ho vista parecchia in giro di questi tempi…”. Aprezza in linea di principio il Manifesto per l’Europa delle Fondazioni di area centrodestra (tra le quali Magna Carta) ma insiste su un punto: “Siamo un progetto nato per diventare un’unione federale ed è bene che i governi sciolgano questo nodo”. Perché: indietro non si torna.

Presidente Mauro, che cos’è oggi l’Europa?

Ci sono tre livelli di contenzioso che possiamo identificare con chiarezza.

Partiamo dal primo.

La crisi economica e finanziaria, la più grave dal dopoguerra. Una crisi che in Europa si accompagna a una profonda crisi di carattere istituzionale , cioè l’insufficienza del progetto politico di un’Europa unita. C’è un deficit democratico molto profondo – che nonostante la crisi non c’è negli Usa – , determinato dalla macchinosità della nascita della decisione politica. A questo si aggiunge il paradosso per il quale il vero moltiplicatore di prosperità rappresentato dal mercato unico, subisce un forte rallentamento a causa della burocrazia.

Il secondo livello?

E’ la dialettica tra il Nord e il Sud dell’Europa. I paesi con la tripla A chiedono agli altri profonde riforme strutturali per tornare competitivi e contribuire alla competitività del sistema continentale. I paesi dell’area Sud dell’Europa, invece, fanno molta fatica a produrre i tempi utili le riforme e chiedono da un lato più tempo, dall’altro nella variante politica che ha come riferimento la socialdemocrazia europea, chiedono l’esordio di politiche di carattere inflazionistico che servano ad evitare il rischio recessione e a rilanciare la crescita. A questo si oppone un no molto netto non solo dell’ormai mitizzata Merkel, ma dei governi del Nord dell’Europa non disposti a finanziare la crescita attraverso un aggravamento del deficit e del debito.

E il terzo?

Riguarda il modo di comportarsi rispetto al debito. Ciò implica un’analisi molto complessa dei mercati economico-finanziari. C’è la tesi di chi sostiene che siamo più deboli perché sui mercati vengono offerti debiti sovrani e le differenze tra gli uni e gli altri producono tensioni che poi si risolvono nello spread. Secondo questa dottrina, si dovrebbe procedere verso una federalizzazione del debito e al varo di Euro-Bond e Projet-Bond che dovrebbero rappresentare il volano per la crescita. Secondo altre tesi, questo si può fare solo dopo che ci saremo dati regole forti e sufficienti affinchè i bilanci dei paesi membri rispondano a una logica unica.

Sì, ma in tutto questo caos l’effetto sui cittadini è devastante.

Abbiamo un dato certo. Sono aumentati molto di più rispetto al passato, i cittadini che non credono nell’Europa, non tanto per l’efficacia della propaganda euroscettica, quanto piuttosto per la mancanza di visione e di proposte da parte di coloro che in Europa dicono di credere. Ciò ha prodotto un vuoto intorno alla leadership europea nel suo complesso.

Problema non da poco.

È un problema molto grave perché gli aspetti progettuali devono andare avanti e richiedono il consenso dei popoli. Ma i popoli non sono convinti e, in ordine sparso, chiedono di tornare indietro o addirittura mitizzano scelto del tipo ‘no-euro’. Questo ferisce l’opportunità di un’Europa unita. In altre parole, di quella piattaforma fatta da 500 milioni di persone che offre ai commercianti la possibilità di vendere a 500 milioni di persone e alle imprese di produrre per 500 milioni di persone.

L’Europa però è in stallo e vista la gravità della crisi non può più permettersi di star lì a filosofeggiare. Come se ne esce?

Siamo allo stallo perché perchè non c’è un vero dialogo. Su una materia così complessa, il dialogo è possibile solo nell’ordine di parole come ‘libertà’ e ‘democrazia’, ‘europa unita’, ‘Stati uniti d’Europa’. Invece, il dialogo avviene con terminologie come ‘supervisione bancaria’, ‘spread’, ‘Projet-Bond’ che ovviamente non hanno analoga capacità evocativa. E siccome nessuno molla sui particolari perché i particolari significano perpetuare la sovranità nazionale e mantenere il controllo sulla rendita politica per gestire il consenso nei singoli paesi, tutto ciò produce stallo e diffidenza.  

Il parlamento europeo, organismo democraticamente eletto, non ha poteri effettivi sul piano decisionale. E’ su questo che lei individua un deficit di democrazia?

La Commissione non è democraticamente eletta, ma nominata dai governi e ratificata dal parlamento europeo. La Commissione non è il governo europeo perché se lo fosse, dovrebbe essere eletta su proposta dei gruppi parlamentari una volta completate le elezioni europee. Il deficit di democrazia c’è perché negli anni si è sviluppata una tecnocrazia che doveva portare avanti una logica comunitaria e invece si è prestata a fare favori a questo o a quel governo, facendo avanzare la logica dei cosiddetti ‘direttori’ o dell’Europa a due velocità.

E il risultato finale?

Oltre a creare ulteriore diffidenza, ha favorito una logica intergovernativa. In altre parole si vuole un coordinamento delle politiche per l’Europa ma la politica di fatto resta proprietà privata delle Capitali. Lo dico perché facendo riferimento al Manifesto per l’Europa lanciato da alcune Fondazioni di area centrodestra, faccio notare che è vero che l’aspetto della capacità creativa delle persone, delle aziende, della società civile è quel fatto che le istituzioni sono chiamate a difendere e a implementare attraverso la politica e le politiche, ma è altrettanto vero che la mancanza di democrazia nel processo decisionale europeo è elemento di sostanza, nel senso che senza una maggiore democrazia proprio nel processo decisionale, è impossibile garantire oggi lo sviluppo, domani la pace.

Come andrà a finire in Grecia col voto di domenica?

E’ sicuramente un passaggio strategico. Io dico attenzione, stiamo giocando con cose delicate. La tendenza a reagire nei confronti dell’opinione pubblica e della Germania ci può far intravedere lo scenario futuro. L’Europa unita è un progetto non ideologico per garantire sviluppo e pace. Per questo deve andare avanti: se si ferma troppo a lungo corriamo il rischio che si riaffacci la logica del conflitto.

Cosa c’è da fare?

Ci sono dei passaggi obbligati. Prima ancora di individuare gli strumenti quali gli Euro-Bond piuttosto che i Projet-Bond, come Consiglio, Commissione e Parlamento dobbiamo dire a chiare lettere e in modo deciso all’opinione pubblica che non verrà mollato nessuno; che nessuno resterà indietro; che l’Europa si farà carico dei paesi che ne fanno parte e che scelgono di restarci. E questo vale ovviamente pure per i greci. Anche perché farli uscire ci costerebbe molto di più.

Quanto?

Se la Grecia dovesse decidere di uscire, ci costerebbe più di mille miliardi di euro. Se resta, 350 miliardi dei quali abbiamo già pagato un’ampia parte. Dobbiamo dirlo affinchè sia chiaro a tutti. L’Europa è un fatto politico. Il processo federativo degli Stati Uniti è costato lacrime e sangue e una guerra di secessione ma ancora oggi, l’unione federale americana destina il 10 per cento del Pil agli Stati membri che strutturalmente non possono competere con quelli più forti per ragioni demografiche, per scarsità di risorse; eppure sono dentro lo stesso e a nessuno verrebbe mai in mente di mollarli. L’Europa è nata nel 1950 ma da allora non solo non abbiamo federalizzato il debito ma non siamo neppure uno stato unico.

Su queste basi come si fa a convincere i mercati?

Non bastano ricette di tipo economico. Siamo un progetto nato per diventare un’unione federale ed è bene che i governi sciolgano questo nodo. Abbiamo fatto l’euro, il mercato unico, dobbiamo fare ancora altre cose che sono all’ordine del giorno ma che negli anni abbiamo interrotto ad esempio facendo fallire la Costituzione europea. Oggi stanno in agenda e dobbiamo completarle, perché è adesso che dobbiamo dire dove intendiamo andare. Su quest’ultimo aspetto non c’è più tempo da perdere.

Come valuta i punti del Manifesto per l’Europa delle Fondazioni di centrodestra?

Ne condivido profondamente lo spirito. L’unica riserva che credo non renda giustizia al problema della crisi, è sul passaggio in cui si dice sostanzialmente che è inutile perdere tempo con complicate alchimie istituzionali. Quelle alchimie istituzionali sono il problema della democrazia e non mi sentirei di saltarlo a piè pari. E’ vero, non mi aspetto niente neanche io da meccanismi legati all’aumento del debito e a formule tanto care alla socialdemocrazia europea, ma mi aspetto molto da fattori chiari come quelli indicati nel documento di Cameron, legati alla crescita del mercato unico e all’internazionalizzazione delle aziende e delle piccole e medie imprese. Dobbiamo formulare il concetto che per dirla con uno slogan potrebbe essere: lasciateci liberi di crescere. Tutto ciò deve avvenire in una logica di sussidiarietà e il complesso delle istituzioni europee e degli stati membri deve guardare a ciò che serve ai cittadini, non far dipendere il futuro da una logica di pianificazione quinquennale.

Ci arriveremo mai agli Stati Uniti d’Europa?

Se dovessi ragionare a freddo, direi che la crisi ci spinge verso la direzione giusta. Però, ho imparato in tredici anni di vita parlamentare che la politica risponde a logiche irrazionali e di irrazionalità di questi tempi ne ho vista molta in giro. Ripeto, attenzione: con le scelte che dovranno essere assunte oggi, ci assumiamo una grande responsabilità verso le generazioni future. La luce in fondo al tunnel ci può essere: dipende da noi fare in modo che sia la luce della soluzione e non il bagliore di un conflitto.