Per vincere in Afghanistan la Nato ha bisogno di più coesione e più uomini

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Per vincere in Afghanistan la Nato ha bisogno di più coesione e più uomini

28 Novembre 2007

Il recente attentato suicida alle porte di Kabul costato la vita ad un soldato
del contingente italiano avviene all’indomani della pubblicazione di un
rapporto di un autorevole think tank indipendente che lancia l’allarme sul progressivo
deterioramento delle condizioni di sicurezza in Afghanistan.

Gli ultimi avvenimenti, d’altronde, non sono episodi isolati. Gli
attacchi suicidi sono proseguiti per tutto il mese di ottobre, specie nella
capitale e nella provincia di Helmand. A pagarne il prezzo sono stati soprattutto
i civili, anche se i principali obiettivi dell’offensiva sembrano essere le
forze dell’Isaf e la polizia locale. L’intensificarsi delle violenze che ha
avuto come teatro la città di Musa Qaleh, controllata dai talebani, ha coinciso
con alcune missioni di ricognizione condotte dalle truppe della coalizione. Gli
scontri non hanno poi risparmiato la vicina provincia di Kandahar. Non è un
caso, infine, che l’inasprimento del conflitto in Afghanistan avvenga
contestualmente ad una significativa recrudescenza delle azioni terroristiche
in Pakistan, le ultime in ordine di tempo messe a segno lo scorso 24 novembre
contro il quartier generale dell’esercito e un edificio che ospita il servizio
d’intelligence militare.

Tutto ciò è perfettamente coerente con il quadro fosco tracciato dallo
studio del Senlis Council, il quale, tra l’altro, può vantare una lunga
esperienza nell’area. Secondo le conclusioni a cui questo è giunto, infatti, i
talebani hanno ricostituito le proprie forze al punto che la prima linea della
ribellione si sta spostando pericolosamente sempre più in prossimità della
capitale Kabul. Gli attacchi sono ormai quotidiani e si assiste
all’importazione di tattiche perfezionate in Iraq, come l’uso di attentatori
suicidi e di sofisticati ordigni stradali. Le forze americane e della Nato sono
costantemente coinvolte in operazioni di combattimento, subendo peraltro anche
perdite significative, in particolare nelle province meridionali di Helmand e
Kandahar. Dato che in tali aree si concentra circa il 62 per cento della
produzione mondiale di oppio, non sorprendono le stime secondo cui l’attuale
insurrezione si alimenta per il 40 per cento dai proventi derivanti da questa
economia illegale.

Il rapporto denuncia che il 54 per cento del territorio nazionale afghano
è nelle mani dei talebani, che non solo infestano le zone orientali e in
special modo il sud del Paese, dove esercitano di fatto la loro autorità, ma
iniziano anche a controllare alcune articolazioni dell’economia locale e
importanti nodi infrastrutturali come arterie stradali e sistemi per il
rifornimento energetico. Come se non bastasse, nelle porzioni di territorio
dove sono maggiormente presenti, la campagna propagandistica da essi messa in
atto è riuscita a fare breccia nella popolazione, in primis in quella pashtun,
in conseguenza dei molti errori commessi dal governo centrale e dalla
coalizione nonché dall’incapacità di questi di creare sicurezza e sviluppo per
le comunità locali.

Anche se il Presidente Hamid Karzai ha manifestato l’intenzione di aprire
delle trattative con gli elementi meno oltranzisti della guerriglia islamica,
simili iniziative non paiono aver scalfito il potenziale aggregante del
messaggio politico veicolato dai talebani, che mirano a conquistare “le menti e
i cuori” delle popolazioni che risiedono nelle aree sotto il loro controllo
puntando, ad esempio, sull’illegittimità del governo di Kabul e sull’impatto negativo
sui civili dei bombardamenti della coalizione. Proprio l’impiego del potere
aereo, a cui le forze dell’Isaf fanno ricorso per mantenere un vantaggio
tattico sulle formazioni degli insorti e che è concepito per sopperire alla
penuria di truppe disponibili sul terreno, a lungo andare rischia di favorire
quella propaganda ostile che si intende contrastare. E’ per questa ragione che
lo studio effettuato dal Senlis Council raccomanda un deciso cambio di rotta.

Posto che non è più sostenibile una situazione in cui a far fronte alla
sfida lanciata dalle milizie talebane siano principalmente le forze militari di
quattro importanti membri della Nato – Canada, Regno Unito, Stati Uniti e
Olanda – ancorché assistite da contingenti forniti da Nazioni non appartenenti
all’Alleanza come l’Australia e la Danimarca, il rapporto suggerisce alcuni
passi da compiere per superare la difficile fase in atto. Essi si sintetizzano
in un’espansione quantitativa del dispositivo militare internazionale schierato
nel Paese centro-asiatico (il numero di uomini dovrebbe essere raddoppiato fino
a poter disporre di almeno 80 mila soldati) nonché in un mutamento della sua
composizione qualitativa tramite l’integrazione di truppe provenienti da Paesi musulmani
e la rimozione dei soliti “caveat” nazionali a cui players rilevanti come Italia, Spagna e Germania non intendono
rinunciare.

Un incremento del numero di uomini del contingente internazionale non
permetterebbe solo di mantenere il controllo delle aree riconquistate e di
supplire alle carenze del nuovo Esercito Nazionale Afghano (benché proseguano
gli sforzi diretti a portare quest’ultimo a livelli accettabili, anche in virtù
dei 72 mila uomini che ne dovrebbero far parte, entro il 2009), ma potrebbe
altresì creare le condizioni affinché sia garantito un maggiore e più efficace
sostegno alle forze armate di Islamabad nel contrasto ai militanti islamici che
imperversano nelle province occidentali del Paese. L’allargamento del raggio di
azione fino in Pakistan, d’altronde, è cruciale dato che è da questo che ha
origine l’esportazione di instabilità che direttamente o indirettamente
rafforza la guerriglia talebana in Afghanistan, in particolare le sue correnti
più radicali nelle cui fila affluiscono di continuo nuovi combattenti opportunamente
addestrati e indottrinati. Si dà il caso che fosse pachistano anche il
terrorista che si è fatto esplodere nell’attentato in cui ha perso la vita il
maresciallo Daniele Paladini.

Quanto alla questione dei “caveat” nazionali, si tratta di un tema
delicato poiché interessa da vicino il nostro Paese, ma anche perché investe la
credibilità dell’Alleanza Atlantica, il cui successo nella prima missione
“fuori area” in cui essa è impegnata è messo in forse dalla riluttanza di certi
governi europei a condividere con gli altri partner della coalizione i rischi
che la pacificazione e la stabilizzazione del Paese inevitabilmente comportano.
Vi sono chiaramente dei distinguo, visto che, ad esempio, il Presidente Sarkozy
ha approvato l’eliminazione di alcune di queste restrizioni e una maggiore
partecipazione dei militari francesi in operazioni “combat” nell’area intorno
alla capitale, ma il quadro complessivamente non cambia.

Sulla incapacità finora dimostrata dalla Nato di portare a compimento la
propria missione a causa della mancanza di una comune strategia di counterinsurgency e di nation building e di divergenze sulla
opportunità politica di ricorrere alla forza pesa come un macigno la tendenza
di alcuni dirigenti politici europei a non adoperarsi a sufficienza per
preparare il proprio elettorato alla possibilità di subire perdite in
combattimento. E’ quanto emerge da un dibattito fra esperti patrocinato dalla
Brookings Institution di Washington tenutosi lo scorso 13 novembre, nel corso
del quale un ex funzionario della Casa Bianca ha anche sottolineato che
esistono oggi di fatto due distinte missioni in Afghanistan, una nel sud e l’altra
condotta nel resto del Paese, separate dalla differente propensione dei
componenti della coalizione ad accettare i rischi e i costi politici del
conflitto.

Come mette in rilievo Roger Cohen, fra i problemi che attendono il futuro
Presidente americano figurano, fra gli altri, la necessità di porre un argine
all’intreccio fra il traffico di droga e il potenziamento della minaccia
talebana nonché il contenimento delle perniciose interferenze nelle dinamiche
afghane del Pakistan ma anche dell’Iran, ma la sfida più immediata che si
troverà di fronte sarà probabilmente quella di salvaguardare la solidarietà in
seno alla Nato messa recentemente a così dura prova.