Perché bisogna rivedere gli studi di settore

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Perché bisogna rivedere gli studi di settore

02 Dicembre 2008

La realtà della crisi economica si scontra oggi con le presunzioni degli studi di settore. Tale situazione viene segnalata dai dati Istat, Isae, dai monitoraggi delle associazioni di categoria e da molti altri indicatori. Una cosa è certa: sono necessari dei correttivi.

 

Se questi debbano consistere in una vera e propria sospensione dell’applicazione, oppure in una mera osservazione monitorata dovrà essere deciso nei prossimi mesi, quando i dati e le informazioni, che nel frattempo vengono raccolte anche dagli Osservatori Regionali, saranno completi ed aggiornati. Del resto, gli indicatori utilizzati dagli studi di settore si rifanno alla realtà economica di due anni fa e se solo pensiamo a cosa è nel frattempo accaduto risulta evidente che necessitino di un restyling. I punti che in particolare necessitano di un’attenta valutazione e osservazione sono costi, margini, magazzini e ricavi. In tal senso sono già arrivate le prime proposte.

L’INT (istituto nazionale dei tributaristi), per esempio, ha annunciato che chiederà che siano maggiormente suddivise le aree territoriali, in modo da tenere presente con più precisione la localizzazione delle imprese ed ha chiesto anche che siano rivisti alcuni parametri di incidenza sul risultato degli studi di settore, quali quelli del lavoro dipendente e del lavoro autonomo.

Come ribadito anche dall’amministratore delegato della SOSE (la società per gli studi di settore), la Commissione di esperti, deputata al confronto tra categorie ed Amministrazione sulla gestione degli studi di settore, dovrà seguire una sorta di road map, con un primo appuntamento a marzo e un secondo a novembre, dopo la consegna delle dichiarazioni.

Già al primo incontro, comunque, dovranno essere individuate le situazioni in cui si può ragionevolmente dire che alcuni scostamenti possono essere giustificati. Come infatti espressamente riconosciuto nel documento della Commissione di esperti, rilasciato in data 6 novembre, “il contesto di “normalità” al quale si riferiscono i risultati degli studi, va infatti sempre adeguato al tempo, al luogo ed al soggetto in esame e non vi è dubbio alcuno che nel 2008 il “tempo” è quello della crisi oggi in atto”. In condizioni di crisi e di particolare criticità del mercato, lo studio di settore deve quindi poter essere oggetto di ulteriore valutazione. La Commissione ricorda poi come una (ri)valutazione a posteriori sugli studi ci sia già stata in passato con il cosiddetto caso della “mucca pazza”, che ha coinvolto, in modo anche pesante, il settore delle macellerie.

Già in tale circostanza, si ricorda nel documento citato, “si è proceduto alla acquisizione di dati e di informazioni utilizzando la dichiarazione dei redditi relativa al periodo interessato dal fenomeno, al fine di poter analizzare e valutare l’entità dello stesso in riferimento ai diversi modelli organizzativi ed al territorio”. Dopo un confronto con le organizzazioni di categoria sono state quindi già all’epoca adottate le scelte ritenute più idonee affinché lo studio continuasse a garantire la corretta rappresentatività della situazione. La differenza con l’attuale situazione è però che oggi la crisi dovrebbe investire tutti i settori produttivi.

Inoltre c’è da dire che nel 2006, sotto l’allora governo Visco, vennero introdotti gli indicatori di normalità economica, che, secondo molti rappresentanti delle associazioni di categoria, da Confartigianato a Confcommercio, oltre ad essere nati anacronistici e ad essere stati determinati unilateralmente dall’Amministrazione Finanziaria, non coglievano comunque la varietà delle tipologie di impresa a cui si applicavano. Il documento della Commissione di esperti prima citata, comunque, non è stato approvato da tutti i partecipanti. I consulenti del lavoro, infatti, si sono astenuti, dopo aver presentato una ricerca in base alla quale risulterebbe che la crisi sta causando cali di ricavi compresi fra il 10% e il 35%, con dunque la conseguente inattendibilità degli studi di settore.

A sostegno di tale linea, del resto, con un’interpellanza firmata da quaranta deputati e presentata da Fabio Gava (PdL), è stata chiesta la sterilizzazione degli studi di settore per tutto il 2009 (cosa peraltro però assai difficile da realizzare se solo si pensa che, in base alle stime più accreditate, il “gettito” da studi di settore è oggi di circa 4,7 miliardi di Euro). Intanto la macchina fiscale non si ferma. Entro l’11 settembre 2008 infatti dovranno essere validati circa 69 studi. E’ possibile però (ed auspicabile) che in quella sede si possa già prevedere qualche correttivo.

Senza infatti arrivare a introdurre degli “indicatori di crisi economica”, che si affianchino o sostituiscano gli indicatori di normalità economica, si potrebbero aggiungere dei righi in dichiarazione dei redditi, dando dunque la possibilità di evidenziare gli scostamenti e i motivi del mancato adeguamento (per esempio per ferie anticipate, stabilimenti chiusi, riduzione delle ore lavorate, consumi energetici, etc). In attesa dunque di vedere i correttivi che saranno adottati, bisogna comunque ricordare che gli studi di settore non costituiscono una forma di catastizzazione del reddito. Il contribuente che ritiene di aver correttamente operato (e dichiarato), anche nel caso in cui, in base agli studi di settore, risulti non congruo, non deve quindi necessariamente adeguarsi al risultato proposto, potendo sempre in seguito provare al Fisco la veridicità ed effettività di quanto dichiarato.

Certo, sapere che anche il Fisco è consapevole delle difficoltà dei contribuenti renderebbe più serene le notti di molte persone. Sono peraltro solo i contribuenti onesti che, di notte, al pensiero di non essere congrui e coerenti, non ci dormono. Gli evasori, quelli veri, semplicemente se ne fregano; anzi probabilmente non sanno nemmeno cosa siano gli studi di settore.