Perché Bush preferisce non farsi vedere in giro con Prodi
20 Febbraio 2007
Lo scorso 14 agosto l’agenzia Ansa trasmise la seguente nota: “Il presidente del Consiglio, Romano Prodi si recherà a Washington agli inizi di autunno per incontrare il presidente degli Stati Uniti, George Bush. Ne dà notizia un comunicato della presidenza del Consiglio”. Poche laconiche righe, come è d’uopo quando si comunica una notizia di rilievo istituzionale.
E’ passato l’inizio dell’autunno e anche quello dell’inverno, tra poco ci troveremo all’inizio della primavera ma dell’incontro a Washington tra Prodi e Bush si è persa ogni traccia.
Persino palazzo Chigi nega che la questione sia mai stata sollevata. Silvio Sircana, il portavoce di Prodi, fu brusco qualche settimana fa quando, sollecitato sull’argomento, disse: “Non è vero che abbiamo chiesto un incontro e quindi non è vero che non ci è stato risposto”. Sircana aggiunse poi un’incredibile chiosa: “fare una foto-opportunity con Bush non è nella agenda delle nostre priorità , lo è invece continuare a discutere con lui. Intendiamoci sappiamo di essere una pulce di fronte all’elefante”. E’ raro trovare un esponente di un qualsiasi governo – anche il più marginale e miserando- disposto ad umiliare in modo così esplicito il proprio paese nei confronti di un alleato. La frase in realtà rivelava la disarmante consapevolezza di quanto poco ascolto oggi l’Italia abbia otreatlantico.
Per questo la vicenda del fantomatico incontro Prodi-Bush non è solo una questione di foto-opportunity ma contribuisce a definire la sostanza delle relazioni tra i due paesi.
La nota agostana dell’Ansa giungeva in un momento d’oro: si era da poco conclusa la conferenza di Roma sulla crisi libanese e l’Italia si proponeva come capofila della missione Unifil, mentre altri paesi si tiravano in dietro. In quella fase era facile pensare che le porte della Casa Bianca, rimaste chiuse sino ad allora si fossero potute aprire.
Palazzo Chigi allora fu prontissimo ad incassare un risultato su cui – aldilà delle smentite dei portavoce – si lavorava da tempo. Non sfuggiva allo staff di Prodi il fatto che Silvio Berlusconi fosse stato ricevuto a Washington dopo soli quattro mesi dall’insediamento (e al tempo, Francesco Rutelli stigmatizzò l’attesa come un segnale di raffreddamento nei rapporti con Bush). Per non parlare di Angela Merkel, che, eletta nel novembre 2005, entrò con tutti gli onori alla Casa Bianca già nel gennaio 2006. Tentativi frenetici per facilitare l’incontro erano stati condotti in aprile da Giuliano Amato e poi ancora a settembre dal consigliere diplomatico di palazzo Chigi, Stefano Sannino.
Ma lo spiraglio apertosi in agosto si è rapidamente richiuso. Ci si è messa dimezzo la vicenda di Hugo Chavez all’Onu, su cui l’Italia – contro il parere Usa – scelse di astenersi; il disaccordo sugli attacchi americani in Somalia; la base Usa a Vicenza, la questione Afghanistan, con il rifiuto del governo sia all’invio di nuove truppe sia a far combattere quelle già presenti; le vicende giudiziarie legate alle “extraordinary renditions” della Cia e del Sismi.
Insomma, tutte ragioni sufficienti a sconsigliare a Bush la scelta di farsi vedere in pubblico con un alleato così riottoso. Il presidente americano vive infatti una fase molto turbolenta con la sua opinione pubblica e non è difficile immaginare che i suoi consiglieri gli abbiano illustrato i rischi di una conferenza stampa comune con un leader “amico” che ha – in successione – ritirato le truppe dall’Iraq, respinto agli appelli di maggiore impegno in Afghanistan ed ora è sotto scacco per l’ampliamento di una base militare americana nel suo paese.
L’unico a festeggiare sarebbe il New York Times che certo non perderebbe una così ghiotta occasione per mettere alla berlina l’inquilino della Casa Bianca e i suoi sedicenti alleati.